Peter Jackson è un artista dispersivo ma profondamente onesto, un cineasta che piazza la mdp con l’intento di determinare un quadro degli eventi che si ricomponga in una realtà inconoscibile. Il suo modus operandi è lo stesso di Ingmar Bergman, quello della “lanterna magica”, dove i toni, i modi, il registro e lo stile cambiano, ma gli intenti restano quelli di restituire un quadro visivo estremamente sperimentale, stratificato, che non chiude mai i conti con nulla, lasciandoli sempre aperti.
Quello di Peter Jackson è cinema empirico, che si basa sulla realtà per costruire un mosaico altro. Il suo cinema è cambiato, dagli anni ’90 di Splatters, Creature del cielo, Forgotten silver, Sospesi nel tempo, fino ai colossal ad alto budget. Jackson ha dovuto/potuto dare una forma all’universo di J.R.R. Tolkien, così come Tim Burton aveva dovuto dare un’immagine organica e puntuale dell’universo fumettistico di Batman.
Questa premessa serve a dire che il documentario They Shall Not Grow Old, appare quasi come un miracolo, vista la precedente produzione del regista neozelandese. Sembra che dopo quindici anni trascorsi a lavorare per la major, ad una cosmogonia visiva fittizia e multimiliardaria, gestendo carovane di attori e di tecnici, Jackson abbia ribadito la sua concezione di cinema “domestico”. Per cui anche nel documentario sulla Prima Guerra Mondiale sono usati gli effetti speciali, ma vengono magistralmente nascosti nel tessuto visivo del film.
Quello che preme a Jackson è l’intenzione di ristabilire un cosmo visivo che lavori sulle immagini per costruire altro, riflettendo sulla Storia per creare storie, riaffermando l’importanza della manipolazione immaginifica in netto contrasto con avvenimenti accaduti realmente. La guerra raccontata da Jackson è la testimonianza di un rifiuto giocoso della tragedia, per affermare una capacità innata di restituire un’immagine sbiadita e spiazzante di un periodo storico che si può solo intuire, a distanza di un secolo.