Il territorio in cui si muove l’ultimo film di Nuri Bilge Ceylan presenta un percorso a più tappe, nessuna delle quali porta alla scoperta di una qualche verità sui personaggi. Tutto il film lascia ad intendere che a Ceylan il plot narrativo interessi fino ad un certo punto, in quanto il regista turco prende a pretesto la storia dell’indagine di polizia per costruire una diadema misterico a più voci. C’era una volta in Anatolia inizia nell’oscurità più completa e si muove a passo di gambero, introducendo figure del dubbio, immaginando una geografia umanista che determina uno scarto tra credibilità din un cinema inteso come scacco premeditato della finzione e perpetuazione di un inganno indefinito. Un analogo procedimento si era visto in Niente da nascondere di Michael Haneke, dove la coppia borghese Auteuil–Binoche veniva spiata da una figura misteriosa, questo generava nello spettatore uno stato di continua tensione, dovuta anche al fatto che la mancanza di una rivelazione sull’identità del molestatore tendeva a ritardare sempre la catarsi e a frustrare continuamente l’aspettativa dello spettatore. Questo modo di fare appesantiva il film di Haneke, rendendolo un gioco crudele e premeditato, cui lo spettatore veniva indirizzato, più per deliberato calcolo sadico che per reale necessità estetica. Haneke non è un regista molto onesto e in Caché rimane un’operazione furba e puramente tecnica, essenzialmente fredda (curiosamente sono spesso le stesse critiche che vengono mosse a Nolan).
Il ruolo di regista-onniscente viene interpretato in modo differente da Ceylan, il quale non si sogna minimamente di giocare a rimpiattino con lo spettatore, puntando verso un cinema puramente lirico, estatico e, in alcuni istanti, semplicemente baciato dall’eleganza di una scrittura immaginifica che sa di leggerezza mista a raccapriccio e stupore. E’ un’opera quasi grottesca C’era una volta in Anatolia, un’estatica ricognizione nei meandri del dolore e della solitudine pervasa da senso di colpa. Emergono tutti i fantasmi cari al regista, i silenzi contratti e visivamente illuminati dal triste arrendersi ad una esistenza vana e irrimediabilmente incompleta.
Nuri Bilge Ceylan con questo ultimo film sembra finalmente distaccarsi dalla pesante etichetta affibbiatigli, quella de “l’Antonioni turco”, in C’era una volta in Anatolia della retorica antoniniana non v’è traccia, c’era nel terribile Uzak (2003), scambiato per capolavoro da molti, ma in realtà non andava oltre una bella (!?) fotografia, come anche nel successivo Il Piacere e l’amore (2006). Con Le tre scimmie (2008) Ceylan si era avvicinato ad una narrazione più corposa e sensata e aveva imbastito un buon melò-politico, ma la forza del suo cinema si esprime al meglio solo in questo C’era una volta in Anatolia.
La scarto estetico che corre tra un Ceylan e un Haneke è la forza evocativa delle immagini del primo e la rigidità strutturale del secondo. Haneke è stato grande in un solo film: Il Nastro Bianco, in cui il cast di attori sconosciuti, il b/n accecante, assoluto, quasi dicotomico; la sensazione ustionante di una morale bromurica che si faceva largo tra le pieghe (e gli orrori sottaciuti) della storia, ne facevano un raro esempio d’opera d’arte assoluta, cui forse neanche quest’ultimo film di Ceylan riesce a superarne il risultato estetico.
Ceylan, qua al suo film migliore, opera un percorso in sottrazione, molto difficile e molto ambizioso, Haneke aveva sorpreso per semplicità di tocco (che non aveva mai avuto prima) e assoluta chiarezza della morale, resistendo alla tentazione di forzare la struttura narrativa attraverso congegni narrativi che avrebbero rovinato la patina immaginifica della scena: o meglio, il cinema della crudeltà in Il Nastro Bianco è ancora presente, ma non dà più fastidio, il cinema rimane intatto in questa operazione così tellurica e allo stesso tempo sottile, quello che rimane è lo splendore di un film che sa farsi arte senza l’ausilio di un ulteriore sovrastruttura narrativa.