Qual’è il senso profondo del fare cinema? Dove bisogna puntare la mdp? Qual’è il ruolo del regista? Ha ancora senso parlare di uno sguardo politico sul mondo attraverso i film? Il film di Mungiu 4 luni, 3 saptamini si 2 zili (2007) tenta di rispondere a queste domande. Il film segna un’impossibile punto di congiunzione tra Ken Loach e Michael Haneke, basato su un’immediatezza, un’asperità, un’originalità di tocco che fanno sembrare ogni avvenimento come surgelato nell’attesa che si compia la tragedia più immane. Il film di Mungiu è estremamente calmo, non esplode mai, fa lievitare la tensione come un tessuto furibondo e denso di indignazione ma sulfureo e quasi ingannevole nello sguardo, nella direzione quasi muta di volti e luoghi. L’estetica di Mungiu apporta un disvelamento nel contesto dell’immagine, tutto si può prevedere ma non che la faccenda dell’aborto clandestino prenda una piega così mostruosamente negativa. Mungiu sa come far paura allo spettatore, e tiene in una “calma cattività” la bestia-film, fa aderire lo spettatore alla realtà del fatto piano piano, prendendolo sempre alla sprovvista, consegnandogli una realtà troppo dura da digerire, nutrendo la sua paura con un dolce oblio, usando il cinema come arma contundente per comprendere il vuoto velenoso della realtà squallida di un paese come la Romania irremovibilmente condannato a vedere morire i propri figli in un oceano di indifferenza.
Se la teoria del fuori campo ha ancora un senso, oggi, 4 luni, 3 saptamini si 2 zili di Mungiu ne è la esemplificazione più lampante e ciò si può vedere nella scena della doppia violenza che rimane eccezionalmente fuori campo, si possono sentire indistinti rumori di cui non si capisce la provenienza e il significato, ma sono echi chi rimbombano e conferiscono un senso di tragicità all’interno evento.
Mungiu sa esattamente cosa vuole dal suo film, si pone domande senza possibilità di risposta, non crede alla possibilità di una salvezza, accetta le conseguenze dell’atto estremo e se ne sente responsabile, non attenua mai quel senso di impotenza e di negazione di ogni libertà che sono i due motivi che spingono le due ragazze a vivere questo strano calvario, questa esperienza che le segnerà per sempre, ad annullare se stesse per abbracciare un ideale mefitico di fine del mondo.
Forse è proprio questo il tema del film di Mungiu: la fine del mondo, intesa come fine della vita, impossibilità di redenzione, crocevia di ogni male, non transitabilità di un dolore che langue e riposa là dove le ferite non potranno mai rimarginarsi.
Un cinema così ha esaudito il proprio compito: individuare una prospettiva dalla quale poter inquadrare i fatti, per poi interpretarli e trarne conclusioni che facciano da sentenza inappellabile contro tutte le altre verità precostituite, ovvero, inventare una morale la dove non potrebbe mai esserci.