Aleksandr Sokurov, classe ’51, è cineasta eletto della nuova cinematografia europea. Autore di opere pittorico-politiche come Madre e figlio, la quadrilogia sul potere (Moloch, Taurus, Il Sole, Faust), un esercizio di sperimentazione digitale come Arca Russa e Alexandra, un film sulla guerra visto dalla prospettiva della nonna di uno dei soldati.
Il cinema di Sokurov non è alla portata di tutti, il suo cinema, così drasticamente pittorico, si situa la dove l’interpretazione sfuma nel ricordo di tempi lontani.
Ciò che fa così grande il cinema è l’analisi che lo spettatore riesce a cogliere in opere che nulla hanno di scioccante o spettacolare; la tranquillità emotiva che si genera dalla visione dei suoi film appare ricondurre lo sguardo verso una placida dipartita rizomatica, antecedente all’organo-cinema di rappresentazione dell’Universo inteso come ripartizione di mondi paralleli.
I film sokuroviani costituiscono un crocevia di strade, sono sillogi che si muovono in epoche distanti, rimescolando il passato dell’oggetto della visione con il futuro dello sguardo della visione, imponendo riserbo e discrezione a personaggi del tutto ambigui e perennemente al di fuori di ogni contesto sociale.
Rivedendo più volte Arca Russa quasi ci si dimentica dell’incredibile tour-de-force cui viene sottoposta l’intera troupe, ci si abbandona al lento trasmigrare delle stanze, l’una nell’altra, giungendo sempre ogni volta ad un grado di consapevolezza sempre maggiore, del tempo che passa, dei personaggi sempre mutevoli e riconducibili ad un’altra galassia di pensiero.
Nella quadrilogia lo sguardo sokuroviano si fa attento, più vigile e probabilmente più pesante di quello ammirato in Arca Russa, senza dubbio un film più leggero e “incantato”. I film che compongono la quadrilogia del potere sono colossi monolitici, estremamente cupi e pessimisti, eccezion fatta per il meraviglioso e inarrivabile Faust, vera e propria opera non conclusa ed in perenne attesa di una continua rivelazione di senso che mai arriverà a compimento. I tre film sui potenti della Storia, Hitler, Lenin e Hirohito sono delle fosche epopee di morte (a volte estremamente grottesche) ognuna delle quali presenta una struttura drammatica in crescendo: in ognuno dei tre film il protagonista o morirà (Lenin) o rimarrà in un limbo di indecisione e di follia che lo porterà all’evidente disfatta (Hitler, con la tremenda battuta su Auschwitz), oppure dovrà abdicare al proprio ruolo di essere divino (Hirohito).
In questo tre film non avviene una progressione narrativa che porti ad una catarsi, si intravede un lento dipanarsi di situazioni in perenne conflitto, nel definirsi come situazioni esistenziali senza via d’uscita, in cui il personaggio è come se rimanesse là, fermo e attonito all’interno di un quadro in perenne disfacimento.
In Madre e figlio invece il cinema sokuroviano compie forse la sua impresa più ardua e di difficile interpretazione, costruendo alcuni quadri quasi sempre fissi, dove viene citata la Pietà michelangiolesca nella figura di un figlio che accudisce la madre morente, tenendola in braccio e leggendole versi, fino al punto in cui la madre esala l’ultimo respiro in una sequenza di forte impatto emotivo.
Alexandra è invece un film non molto originale nella filmografia di Sokurov, in cui il regista si limita a raccontare la storia di una nonna che va a trovare il nipote al fronte, scoprendo così gli orrori della guerra. Nel film ci sono alcune magnifiche sequenze (il nipote che rifà la treccia alla nonna) ma narrativamente non si va oltre un pacifismo un po’ risaputo.
Dove Sokurov dimostra invece tutto il suo talento nella costruzione di una inarrivabile retorica del cinema lo si può vedere nel Faust, operazione a dir poco sublime di vagabondaggio estetico, dove nulla sembra avere più senso come di l’Usuraio, né la vita, né la morte valgono più nulla, solo l’arte e il tempo. E’ l’idea di Sokurov sul cinema, sul mondo, sull’esistenza? Se mai il cinema aveva raggiunto simili vette lo si deve ad un cast esemplare, una fotografia di lampante aderenza alle ambientazioni di risonanza emotiva vivissima e di potenza drammatica totalmente accecanti.
Non è per tutti il Faust di Sokurov, sia detto senza troppi complimenti, si tratta di un’opera sì squisita, ma molto pesante, verbosa, a dir poco magniloquente, anche se mai pomposa, certamente simbolica e dal gusto pittorico impressionante. Veramente si faticano a trovare termini di paragone per una simile opera di mimesi totalizzante come questa, perché il Faust di Sokurov si muove a volte come una tela di Brueghel, sempre densa di elementi, cose, suoni: una vera bolgia autoriale. Un cinema sempre difficile e pensatissimo che però riesce sempre a non fare letteratura, ma a trasformarsi ogni volta in qualcosa di sublime e di inarrivabile.