Se c’è una cosa che a Polanski riesce magnificamente è quella di evocare il demonio. Quello che ha mostrato Polanski con The ninth gate non mi è mai più capitato di rivederlo in nessun altro film. In La Nona Porta la materia stessa del cinema è fatta di zolfo. A detta di molti, il film di Polanski apparì come un furbo esercizio di stile che non restituiva il genio del regista di Rosemary’s Baby. Ma tra Luna di fiele, La Morte e la Fanciulla, Pirati, Frantic, io credo che, oggi, La Nona Porta sia il film più vicino al capolavoro che Polanski girò 40 anni fa.
Nemmeno Il Pianista gli tiene testa, con la sua retorica “alla Schnidler’s list“, e la sua altisonante preghiera anti-nazista a favore della causa ebrea: tutto già visto, lo Shoah-movie è ormai un genere consolidato e ad alto coefficiente di commozione e di consenso presso pubblico e critica, infatti per The pianist non a caso, sono piovuti premi a pioggia, cosa che neanche a Kubrick per “2001:Odissea nello Spazio“, o per “Arancia Meccanica“, o per “Shining” sono mai capitati. Lo shoah-movie vende. The ninth gate propone un target più appartato, ma niente affatto ombelicale. Quello che fa de La Nona Porta un film singolare e unico è il suo andamento lento e funereo e al tempo stesso lieve e surreale lo fa apparire come un monito di sconfitta nei confronti delle mode più imperanti. E’ come se il tempo del racconto determinasse la lentezza con cui i frame procedono non mostrando mai il contenuto che esso porta. Da qui deriva il mistero mai svelato di un cinema esoterico nella forma ma illuminista nel contenuto. Polanski ha fatto il suo film più necessario degli ultimi 40 anni, e se molti non lo hanno capito è perchè non ne hanno notato la squisitezza di racconto, la fluidità e una normalità (quasi bunueliana) tale da rendere realista anche l’ossessione che hanno i personaggi nei confronti del demonio. Polanski mostra il diavolo come un’entità suprema e imprendibile, ma la mostra come fatto ineluttabile e sconvolgente, perchè creatura silenziosa e pressochè ubiquitaria. Il diavolo come la morte è ovunque, questo è uno dei tratti lapilassiani del cinema polanskiano.
Si può dire, quindi, che nella filmografia di Polanski La Nona Porta (1999) ricopre un posto anomalo. Ritenuto dai più uno sterile, risibile esercizio di stile che nemmeno si avvicina allo stile di performance registiche quali Repulsion, Rosemary’s Baby, Le Locataire, Frantic, ma che fa apparire Polanski un regista forse stanco che non ha più nulla da dire.
Perché tanta acrimonia riguardo al film con Johnny Depp? E’ palese che ci siano alcune ridondanze, punteggiature, magari errori d’ingenuità che non ci si aspetterebbe da un regista del calibro di Polanski. Eppure La Nona Porta non è affatto un passo falso, lo stile non è più quello di una volta, ma lo si potrebbe anche dimenticare per un momento e lasciarsi alle spalle tutti gli errori (per carità, non grossolani, anche se comunque si parla di uno dei giganti di questa che viene definita “la settima arte” e, comunque, Polanski il peggio di sé lo aveva già dato in un film senza dubbio kitsch e oltre modo invecchiato male come Luna di fiele del 1992, quello è il peggior Polanski, a parere di chi scrive) di script, per concentrarsi su una storia narrata con un garbo mefitico, uno stile mai cattedratico, un incedere solenne e vago ma chiarissimo negli intenti finali, ovvero, non quelli di far paura, ma di mostrare i crismi dell’investigazione come il risultato di una soggettivazione della materia preposta al quadro, ovvero la consapevolezza di voler mostrare quello che c’è oltre l’immagine.
L’investigazione di Johnny Depp/Dean Corso verte sul libro che dovrebbe servire ad evocare il Diavolo. A Polanski questo serve soprattutto per dimostrare la non esistenza del Principe delle Tenebre attraverso una raffigurazione di tutte le possibili mutazioni mentali cui può dar adito la lettura del libro, in questo sta la principale fonte di fascino del film di Polanski, una rotazione cognitiva ad ogni incontro investigativo fatto da Depp/Corso: la prima è dal datore di lavoro, il luciferino Balkan, poi dalla Baronessa Kessler (che le dice di aver avuto, in tenera età, un incontro con Satana in persona), ed infine da Victor Fargas. Ognuna delle tre tappe rappresenta un motivo di tensione altissima, una ricognizione intorno alle spire di un passato colmo di fantasmi. Qua il cinema di Polanski lavora come al solito sulle piccole cose, i dettagli, la misura di ogni perlustrazione scientifica che porti il protagonista ad imbattersi in un nuovo dubbio che mini dalle fondamenta il lavoro che sta conducendo.
Questa è una delle colonne portanti del film: il dubbio, insieme alla retorica del Dio denaro. Dean Corso dubita, non si fida di nessuno, crede solo nella sua percentuale (come del resto Boris Balkan, che esplicita in una battuta il suo personale convincimento sul fatto che dove non possono arrivare gli uomini, con tutti i loro limiti, può arrivare il denaro, “nulla è più affidabile di un uomo la cui fiducia può essere comperata attraverso il denaro!”. Polanksi dissemina tutto il film di moniti incontrovertibili riguardo alla bontà delle dichiarazioni di Corso e di Balkan, nulla è come sembra e il suo cinema illusorio compie per l’ennesima volta un volo pindarico di consapevolezza ermeneutica contro tutte le certezze del mondo terreno.
L’enigma è alla base del lavoro di scavo nella cinematografia polanskiana, il suo estro illusorio lo porta a delle vette di parossismo realistico nei confronti di tutto ciò che si può manifestare solo come una diretta emanazione dei peggiori incubi derivanti dalla letteratura satanica e, forse, della letteratura in generale. E’ un viaggio onirico, spacciato da realismo magico che si deve tentare almeno una volta, per avere almeno la prova che la regia al cinema serve soprattutto per indicare quel punto in cui non tutto è proprio fruibile ad occhio nudo. Il cinema di Polanski va là dove la luce è meno intensa, dove tutto assomiglia ad un grottesco scherzo della vista, dove gli occhi non bastano più e bisogna ascoltare la voce del proprio terzo occhio.
La Nona Porta è dunque allo stesso tempo fiaba nera e documento di un’insurrezione metafisica: “lei crede nel soprannaturale?”, chiede Balkan/Langella a Corso/Depp, mentre sta fissando dal suo appartamento lussuosissimo, degno di un monarca o, appunto, un diavolo una altezza vertiginosa che lo spettatore non vede, “io ho visto il diavolo anni fa, con i miei occhi, proprio come vedo lei qui adesso davanti a me”, dice la baronessa Kessler a Corso, che lo guarda con un’espressione tra l’ inebetito e l’indifferente. Tutti nel film millantano di aver avuto dei rapporti veri o presunti con il diavolo, ma l’unico a vedere la luce in fondo alla tenebra, dopo che Balkan sarà stato annientato dalla propria follia sarà proprio Corso, apprendendo l’amore dalla bella strega Seigner. Come dire: il vero protagonista della storia non è Corso/Depp ma il regista Polanki, quindi è Polanksi a mettere in scena idealmente se stesso in una scena erotica con sua moglie, la strega Emmanuelle Seigner, in una scena che non spiega nulla, ma che non deve essere presa sotto gamba: qualcuno ha citato il famoso detto “il diavolo è femmina”, io aggiungo che la scena finale di La Nona Porta non è altro che un modo attraverso il quale il demonio nasconde sotto una coltre di fumo i suoi segreti. Quindi non è un difetto di sceneggiatura, ma un vedere oltre la facciata di un puzzle il cui pezzo mancante è andato distrutto nelle fiamme. Il sesso è quindi la liberazione dalle tenebre che porta ad una resurrezione illuministica.