John McEnroe - L'impero della perfezione

Il documentario ripercorre le tappe salienti della carriera di uno dei più grandi tennisti della Storia, forse il più grande in assoluto, John McEnroe, che nel 1984, al Roland Garros, subì una clamorosa sconfitta, in un palpitante match con l’americano Lendl.
    Diretto da: Julien Faraut
    Genere: documentario
    Durata: 95
    Con: John McEnroe, Ivan Lendl
    Paese: Fra
    Anno: 2018
6.5

Filmare lo sport è questione ardua e prescinde da una conoscenza del contesto agonistico non indifferente. Nel caso di Julien Faraut questo dubbio non si pone, come si può vedere dalla precisione enciclopedica con cui ha costruito il mirabile documentario John McEnroe – L’impero della perfezione, una “perfezione” espressa nel titolo, che nel finale del film subirà una clamorosa disfatta. Non si contano molti esempi di documentari analitici sul tennis e, le poche volte in cui si ha davanti un’operazione del genere, com’è nel nostro caso, ci si trova davanti ad una sontuosa riflessione sull’immagine, il montaggio e sul significato conferito ad una invidiabile costruzione per raccordi narrativo/estetici, degni del miglior documentarista in circolazione, nonostante Faraut non sia celebre come Herzog, Wiseman o Nicolas Philibert.

Il film di Faraut inizia dando una lezione sui rudimenti fondamentali del tennis, una lezione molto elegante e sui generis; in seguito introduce la figura di McEnroe e il suo stilema di “costruzione del personaggio”, il suo modo particolarissimo di giocare e di essere in campo, il suo carattere sensibilissimo e impossibile; di conseguenza introduce la figura dei critici cinematografici interessatisi allo sport, Serge Daney in testa, il quale definisce McEnroe un regista che conduce da sé e per sé la partita/film, dove il solo e unico regista delle sue imprese è proprio lui, perché sempre in grado di far terminare una partita a suo piacimento; infine mostra l’incredibile match del 1984 al Roland Garros con l’americano Lendl, il cui esito lascia a bocca aperta una platea incredula e meravigliata, per la qualità del gioco e per la sua durata.

Se la componente pedagogica pare prenda il sopravvento in ogni momento, quello che stupisce in Faraut è la capacità di districare la matassa con un punto di vista sempre ironico e mai pedante. Il modo in cui filma le performance di McEnroe ha qualcosa di armonico e sontuoso, una danza tesa a soffermarsi sui dettagli che elevano il modus operandi di McEnroe ad una statura da esegeta di una perfezione calcolata nei minimi dettagli.

Non ho visto il film con Shia Labeouf e Gudnason del 2017, ma posso facilmente immaginare la difficoltà e le facilonerie nella ricostruzione degli eventi, delle dinamiche e delle psicologie. Nel film di Faraut tutto questo viene filtrato da un lavoro di montaggio sulle bobine dell’epoca: dunque il vero viene traslato dai raccordi di montaggio e da un senso che si stratifica, da antico torna ad essere nuovo e rivelatore. La frase di Jean-Luc Godard, “Il cinema mente, lo sport mai” qui viene ripreso da Faraut in senso ancora più profondo, in quanto con questo suo documentario L’impero della perfezione, ha tentato di conferire un nuovo senso alle immagini, arrivando a modificare il reale, costruendo una momento immaginifico di iperrealismo. E il cinema rinasce, nel modo più imprevedibile.