Cosa rappresenta l’inversione di tendenza, a dieci anni di distanza, tra un Brazil e L’esercito delle 12 scimmie? La Kim Griest di Brazil si fa donna-sogno nel corto circuito mentale del protagonista Jonathan Pryce, la Madeleine (nome hitchcockiano) Stowe di L’esercito delle 12 scimmie si tramuta nella donna-ricordo che tenta di salvare Bruce Willis dal suo destino.
In entrambi Gilliam gioca sull’interdizione tra la realtà e illusione di una sua riproposizione in termini di rifiuto categorico di un mondo dissoluto e incomprensibile.
In Brazil l’organicità divertita e imponente mostra un Gilliam al massimo delle sue potenzialità autoriali, con un film che non finisce mai di stupire, attraverso una macchina che incede e accumula situazioni grottesche, andando ben oltre i confini del già visto. Ne L’esercito delle 12 scimmie la struttura è ossificata, meno chiara, il film si perde e si ritrova, andando a confermare le doti smaccatamente cyberpunk del suo cinema infinito e sfinito.
Due film-giostre Brazil e Twelve Monkeys, due irragionevoli salti nel vuoto. Gilliam si produce in una pantomima della forza anarchico-distruttrice del suo cinema-mentale, sconfiggendo da subito il realismo in nome di un accumulo sfrenato di perdizioni e agganci alla sublimazione di un supremo “Io” chirificatore, che poi è l’essenza del suo cinematico universo in perenne disordine.
Entrambi i due film si propongono di esercitare un aggancio con un certo tipo di tematica, quella relativa al ricordo perduto. Se in Brazil lo script non ha falle narrative è perché la visione d’insieme si tramuta sempre nella metafora di un ricambio scenografico, ottenendo così la penetrazione nello sguardo del protagonista, angosciato da un presente sfatto e da un futuro immaginato come nella peggiore delle sciagure possibili.
Al contrario ne L’esercito delle 12 scimmie le falle narrative costituiscono dei vettori di senso che inoculando nel verbo della narrazione dubbi che orientano lo sguardo dello spettatore, a tutto discapito del coinvolgimento dello spettatore, che si vede sballottato tra il presente è il futuro perdendo di vista il senso del personaggio.
Si tratta comunque, in entrambi i film di una percezione del futuro come rovina fatiscente, in cui il tempo non scorre se non nella mente di chi fa e di chi vede il cinema (come si può contare il tempo del cinema?), in cui il precipizio aperto dalla rivoluzione mancata dei vari Jonathan Pryce o Bruce Willis porta ad uno stato catatonico di reiterazione del meccanismo della paranoia.
Il Potere ruberà per sempre il futuro al popolo, il quale non potrà che rimproverare a se stesso di essersi convinto che un’altra realtà fosse realmente esistente.
I viaggi nella follia di Terry Gilliam finiscono sempre con un sopruso indefinito, una riconciliazione con il passato vilipeso, un tentativo di ricomporre il mosaico di una realtà ormai imponderabile.
E’ per questo che Gilliam fa ancora film, per ricongiungersi a quella imponderabilità di fatti irreali e mostruosi, di una realtà che si fa carico di un monito illusorio e vendicativo, in cui la dialettica tra paranoia e intrusione nel sogno diventa il cardine di una silloge impronunciabile, che è appunto il motivo più autentico di tutto il suo cinema.
Brazil e Twelve Monkeys si riflettono l’un l’altro come due specchi deformanti la realtà, deflagrando un’idea di cinema che permette al suo autore di riavvicinarsi ai suoi due maestri: Hitchcock e Chris Marker.