Titanic è stato l’evento Monstrum degli anni ’90, un cine-mondo potenzialmente infinito e totalizzante l’idea stessa dalla visione nel contesto di una esperienza sensoriale-immaginifica-emozionale-figurale-erotica-storica indimenticabile. Un film-simbolo, un monumento alla Hollywood classica, quasi una specie di Casablanca del decennio passato. Cameron ha coniugato le proprie ispirazioni al gigantismo lunare-metallico in un cinema-forziere che contenesse ad ogni scena il credo di un mutare assoluto della mdp nello sguardo dei due protagonisti, Jack (Leonardo DiCaprio) e Rose (Kate Winslet).
Il Titanic di Cameron affonda le radici della sua incontestabile esegesi di uno stupore imperiale, nel bisogno organico di una struttura i cui pilastri servissero all’imposizione del dramma della nave più famosa della Storia con un crisma coerente all’affermarsi di un concetto di cinema ripartito secondo lo schema del mélo fiammeggiante di un Sirk o di un Minnelli.
Cameron sofferma lo sguardo su questa tragedia delle anime divampanti come uno scultore osserva la propria creatura muoversi nel mentre lo scalpello compone l’immagine della figura. Con estrema sintesi e desiderio di sperimentare l’accoppiata tragedia-mélo, il cineasta concepisce la rottura dello scambio tra i rapporti tra il visivo e l’immaginabile, conferendo al suo cinema una tensione mai raggiunta prima.
Il mélo si dipana in maniera intellegibile, nel solco di una retorica che si fa danza e sinfonia di un elettrico incedere, nel vortice di emozioni pregnanti, puntando alla conquista di un pubblico devoto e affamato di eroismi, di tracciati amorosi che tendano a ridefinire il modello stesso del mélo.
Cameron si rivolge allo spettatore per approdare al senso ultimo del suo fare cinema, consegnando la storia di Jack e Rose alla Storia dell’inabissamento della nave più famosa del Novecento, siglando un rapporto di tesi-antitesi tra gli innamorati e la nave, soccombente alla sua stessa furia dominatrice.
L’autore di Terminator qui si fa di nuovo cineasta arrembante, filosofo aggressivo di una macchina-cinema che si contorce e intravede il futuro dell’immagine, attraverso la regia purissima dell’affondamento, che sigla la sconfitta della tecnica (dell’epoca), filmata attraverso un uso assoluto della tecnica (il cinema, grazie anche alla luce del fondamentale Russel Carpenter), in cui l’immagine diviene immediatamente faro aristotelico, imponente longevità assoluta ad un’arte mai limitatasi alla relegazione di mero compendio artistico di una felice intuizione estetica, ma diventando bensì il corpo di una organica metamorfosi, accendendo un pulpito sovrano alla reliquia fiammante di un classicismo di cui il pubblico ha un disperato bisogno.
Cameron è il cineasta dell’antropomorfismo primigenio, il quale ruba diagonali e tangenti ai geometri, per disegnare un quadro in perenne ascesi, in cui il calcolato ma strabordante splendore è degno del Cimino de I Cancelli del cielo. Nella sua filmografia Titanic è il viaggio temporale, dove lo sguardo si ferma alla contemplazione di una scheggia impazzita di umanità ferina e ferita, in un tempo in cui tutto sembrava possibile e la tecnologia pareva aver messo le ali ai piedi a uomini pieni d’ambizioni. I loro errori furono madornali, eclatanti. Cameron si destreggia nel raccontare questa umanità così piena di sé con lussureggiante poesia. Il suo Titanic accese la Volta del cinema, la notte dell’Academy Awards e mise in luce un’estetica della “tecnologia della morte” che riesce a suscitare, dopo più di dieci anni, uno stupore ed una commozione ancora oggi invariati.