Quando la ripetizione di sé declina il cinema-cinema verso un’autorialità sempre intrinseca ad un modello precostituito, genera il marchio di fabbrica di un cineasta che intende farsi riconoscere all’istante. Damien Chazelle ha voluto evitare di entrare in questa spirale. Dopo due film sul jazz, la sua musica è già cambiata, il suo quarto lungometraggio, First Man – Il primo uomo, non potrebbe essere più distante dalla sua precedente produzione. Da La la land viene recuperato solo il volto, sempre fermo e distinto, di Ryan Gosling, che torna alla fantascienza (anche se stavolta è molto più scienza e molto meno fantastica) dopo il clamoroso inabissamento autorialista di Blade Runner 2049, fulgido esempio di un cinema intonso, liquido e protomorfo, dove lo spazio temporale veniva ricollocato in un passato evocativo fuori contesto; il film si definiva in quanto opera disconnessa dal contesto temporale (2017) che lo ha generato.
First Man non ha le ambizioni titaniche del film di Villeneuve, è davvero un compitino studiato precisamente per far capire che Chazelle, autore di due film sul jazz serviti, per mandare un velato messaggio ai non amanti del jazz, sul fatto che il genere sta morendo, non vuole essere etichettato in quanto “regista di film musicali”, e che, quindi, è in grado di saper fare altro. La space opera era nelle corde emotive del trentenne e la produzione, promossa dall’Executive Spielberg, ha accettato. Così Chazelle costruisce un’anonimo ma niente affatto brutto biopic sulla vicenda di Neil Armstrong, impostando quadretti familiari anni ’60, l’angoscia della moglie che lo attende con ansia vitrea a casa, l’equipe spaziale che studia l’allunaggio e tutto il contesto dell’America dell’epoca che segue con fastidio e trepidazione l’avvenimento.
Nel film non c’è davvero altro, tutta la messa in scena non risente della mano di Chazelle, che dirige un film che avrebbe potuto girare qualunque altro regista, ma per il giovane autore di La la land questa non è altro che una palestra di cinema classico, dove i movimenti di macchina a mano sconvolgono le attese e generano quel pathos spaziale che serve a dare una spinta ulteriore ad una macchina drammatica per lo più stravista. Non c’è più l’immediatezza di La la land e le esecuzioni da applausi di Whiplash, tutta la sinfonia visiva viene ripresa con distacco e anche con una certa mancanza di ironia. Forse Chazelle cambierà ancora le carte in tavola e tornerà nuovamente a cambiare stile, dirigendo un altro film non musicale. I tentativi gli servirebbero per trovare una strada compiuta tra i vari progetti. Ma per adesso, si doveva scrollare di torno l’atmosfera di un colpo di genio come La la land, e non era affatto facile. Di certo, First Man è un’opera diligente e scolastica, precisa come un guanto di velluto che scivola su una mano per provar se la misura è giusta. Ma forse, per arrivare al passo successivo, ovvero la risoluzione di un conflitto veicolata da una serrata tensione, ci vuole ben altro. A cominciare dallo script, di cui Chazelle dovrà riprendere il controllo.