Con Prometheus si pone il problema per Ridley Scott di riallacciare il filo temporale al capostipite del 1979, Alien. Quel film con un cast di attori all’epoca sconosciuti, girato con un dispendio di mezzi e di capitali infinitamente più basso di questo ultimo capitolo, aveva dimostrato cosa poteva fare un giovane regista in erba con un cast di livello e con poche ma essenziali idee di messa in scena e, con uno script di ferro, grazie al quale il film rivisto oggi appare come una perla di cinema sci-fi inteso non banalmente come guerra tra navicelle, ma come “geniale cinema da camera” (lo disse una volta Enrico Ghezzi).
Ridley Scott è quel regista a tratti geniale che riesce sempre nell’impresa di istallare sequenze di puro cinema cristallino all’interno di film-contenitori che, nella loro, interezza valgono davvero poco o niente. Problemi di deja-vu, del fatto che il regista inglese gira troppo, di conseguenza finisce per accettare troppi copioni non degni di questo nome e rimanendo sempre alla superficie della propria, superba, ma inutile tecnica. Scott la sa usare con una maestria a volte folgorante (vedersi la scena dell’aborto di Noomi Rapace, del tutto implausibile ma carica di una fora cinematica totalmente dinamitarda, è qui che l’arte scottiana si dimostra ancora una volta capace di costruire prospettive disarmanti e prosopopee innovative e deliranti), ma i suoi progetti scontano un’idea di partenza, che non arriva mai a colpire il ganglio formativo di una necessità di visione che è intrinsecamente legata al fare cinema.
Aggiornare il proprio mondo narrativo. Nolan lo ha fatto, il Rian Johnson di Looper lo ha fatto, persino Cameron con il suo Avatar ha concepito un mondo-cinema classicheggiante, ma denso di risonanze relative ad un modo di pensare che è attivo nel mondo di oggi. Invece Scott rimane indietro, fa della ridondanza visiva il suo spettro di visione, ricostruendo i fatti accaduti sul pianeta-alien prima che la navicella di Sigourney Weaver vi atterrasse per la prima volta.
Prometheus sa di vecchia sci-fi anni ’70, riprende quel tono ma sconta idee di script e dialoghi del tutto fuori contesto. I dialoghi nel film del ’79 avevano contribuito in maniera determinante a costruire una tensione crescente, che poi porterà ad una catarsi risolutiva che però non farà dimenticare tutto l’orrore che c’è stato prima. Questo era il modo di pensare di Scott nel classico b-movie del ’79, un film semplice e a suo modo rigoroso, senza fronzoli, pulito e serio: sono i motivi della sua longevità.
Prometheus pretende di dare una spiegazione ai fatti accaduti nel film del ’79, secondo la logica semi-parassitaria del prequel, attivando un discorso sicuramente di riporto, attingendo ad un deja-vu visivo che, secondo il progetto scottiano, dovrebbe servire da vettore rivelatorio ad una nuova configurazione dei ruoli, all’interno di una vicenda di cui si conoscono già tutti i crismi. Ma Scott non tiene conto del fatto che il range temporale è troppo ampio e l’idea di tornare sul suo campo di battaglia prediletto (la sci-fi di genere) con tutti questi soldi a fare da zavorra scenografica, genera un surplus di ricezione, come se l’idea immaginifica si componesse in modo aulico ma tronfio, nonostante la naturale bellezza di alcune composizioni saltino in maniera impressionante agli occhi. Ma il fumo si vede. Eccome. Scott ha tentato di camuffare l’assenza di uno script degno di questo nome dietro una ricchezza compositiva che stona a tutti i livelli con la pretenziosità di idee nate già vecchie. Il regista inglese ama strabiliare il suo pubblico con scene memorabili, ma l’architettura non può tenere, soprattutto se paragonata ai labirinti mentali di Nolan e ai viaggi nel tempo di Johnson, ovvero, al nuovo cyber-punk.