Quando il disordine e la dispersione diventano sistema di pensiero rivoluzionario e antitetico ai modelli costituiti. Terry Gilliam si conferma il più grande cineasta anti-istituzionale degli ultimi 30 anni. L’uomo che uccise Don Chisciotte potrebbe diventare il suo film testamento, l’esito eccezionale di una battaglia contro il tempo e le sfortune come ce ne sono state poche nella Storia del cinema. L’ultimo Gilliam fa ritrovare l’autore ispirato, guerrafondaio e anti ideologico di Le avventure del Barone di Munchausen (1989), con il tipico modello narrativo frastagliato e discontinuo. In realtà il continuo cambio di passo nel suo cinema serve a tenere alta l’attenzione dello spettatore che viene travolto da una sarabanda di cambi di prospettiva e di punti di vista tali da far quasi assomigliare l’intero film ad una brulicante tela di Brueghel.
L’uomo che uccise Don Chisciotte ricorda per densità scenografica e per complessità degli elementi in gioco il Faust di Sokurov. Ma là dove l’opera di Sokurov peccava, se così si può dire, di leggerezza e senso dell’umorismo, pur avvolto da una sovrabbondanza estetica e fotografica raffinatissima che tendeva a stordire lo spettatore, Gilliam, lo dice subito fin dall’inizio, non ha nessuna intenzione di prendere sul serio il suo carrozzone picaresco. La sua è una macchina narrativa che s’inceppa e trova ostacoli al suo cammino, si ferma, contempla, si ritorce contro il suo stesso percorso e poi riprende e torna a correre più folle che mai.
Così il senso di Gilliam per il cinema si evolve in continuazione in un labirinto di visioni accentate e decentrare verso un fulcro che forse non si troverà mai. Spiegato così sembra difficile. Eppure se s guarda il film si nota una commedia perfettamente calibrata, diretta in modo classico, senza sbavature, l’ironia penetra senza sotterfugi nelle pieghe della sintassi. Gilliam sa cosa significa dirigere un set, trasformarlo secondo le sue esigenze, come ha sempre fatto Tim Burton e come fa David Fincher le poche volte in cui è ispirato da uno script efficace e corposo (si pensi al capolavoro di James Vanderbilt per Zodiac, fondamentale astro estetico degli anni 2000).
In L’uomo che uccise Don Chisciotte ci sono molti film, Gilliam tenta di metterli uno dentro l’altro e non sempre ci riesce, l’incastro a volte determina una certa confusione, appunto, una dispersione narrativa che la maggioranza ha mal giudicato. Ma è proprio nella rottura del verbo che s’insinua un significato nascosto. Gilliam prende dal postmoderno quello che gli altri autori scartano. Là dove del Toro su La forma dell’acqua costruisce la trama sentimental-politica, accolta dalla maggioranza di critici e spettatori come un raffinato apologo contro ogni tipo di discriminazione e intolleranza nei confronti del diverso, Gilliam riduce l’apologo a farsa e mette in berlina il tollerabile e l’intollerabile. Del Toro si prende sul serio, Gilliam rompe il giocattolo sul nascere. Risolvere o non risolvere la controversia interna al quadro? Del Toro la risolve e gira filmetti ordinati e insulsi, Gilliam non la risolve e dirige sontuose danze macabre.