Per dieci lunghi anni, un'analista di un gruppo investigativo della CIA, Maya, ha dato la caccia all'uomo più ricercato del mondo: Bin Laden.
Diretto da: Kathryn Bigelow
Genere: guerra
Durata: 157'
Con: Jessica Chastain, Joel Edgerton
Paese: USA
Anno: 2012
Questo Zero Dark Thirty sembra la conseguenza di una rinascita creativa, un’opera assemblata secondo i dettami di una perlustrazione spaziale che rivolge il suo sguardo all’interno di un mosaico inondato da forze nascoste che si impediscono di concepire la verità del reale come unico elemento probante.
Nel film della Bigelow, una grande Jessica Chastain (che con la sua forza determina il motivo più importante della riuscita del film) combatte contro un muro invalicabile di informazioni inviolabili ed eterogenee, suo è il compito di elaborare, decodificare, tradurre l’organigramma-Bin Laden.
Maya/Chastain riesce nell’obiettivo di identificare il covo dove si nasconde il terrorista, per poi dover ammettere tutta la sua inadeguatezza di fronte al dubbio cocente sulla reale identità del terrorista.
Maya rimane sola con i suoi enigmi indecifrabili, si sente persa e non può più accettare il reale come unica fonte ermeneutica di verità.
Deve andare oltre, sul suo pianto il film finisce, in un mare di dubbi, con la consapevolezza che il domani non sarà affatto roseo, neanche dopo che l’uomo più ricercato nella storia degli USA è stato braccato e ucciso.
La Bigelow firma il suo film più semplice, il più ortogonale, senza più i Rambo-style, senza più machismi, ralenti, panoramiche a schiaffo. In Zero Dark Thirty, avendo una storia da raccontare, dovendo seguire una narrazione ferrea, la Bigelow non si può più permettere di fare un film che giri su se stesso, che rappresenti il nulla della guerra intesa come droga dai marines, come accadeva in The Hurt Locker e, senza alcun piagnisteo pro o contro gli USA, determina l’esatto scarto d’impasse, la fuga tangibile dal modello prestabilito delle convenzioni autoriali del cinema di guerra, girando un film che annaspa nella strutturazione di un limite del visibile.
Nel tempo corrotto dal contesto politico invaso dalle commistioni tra la CIA e il terrorismo anti-USA, dove non si può più dire (ma non si è mai potuto dire, in effetti) quali siano le parti giuste e quelle sbagliate, quale sia il confine delle parti, quali siano i ruoli che determinano la genesi di un dubbio che permette all’agente di Maya di autodeterminare la propria direzione di sguardo, al fine di ricondurre ad una logica fatti per se stessi davvero intangibili e forse osceni nel nel loro silenzioso dipanarsi.
La Bigelow ha fatto il suo film più teorico, ha capito lei stessa che il reale è solo un’incognita che va presa per quello che è, accontentandosi di poterne recepire una seppur minima parte, non potendo avere nelle proprie mani l’intero mosaico, l’intera struttura di rapporti interni della CIA.
Con Zero Dark Thirty la regista americana si propone di sondare i comportamenti di personaggi votati al doppio gioco e alla delegittimazione della verità.
Ciò che si vede, il reale, non è necessariamente l’ineludibile verità, ma uno dei tanti possibili controcampi di ciò che accade nelle stanze del potere, la forma dell’inganno, il totale remissivo di un rendiconto che non troverà mai il suo apice nella rivelazione ultima che è appunto, chi ha fatto cosa e perché. E’ un fuori campo necessario e la Bigelow ne ha capito il senso, mostrandolo senza alcun timore.