Jack Reagan è il Capo della polizia londinese denominata "The Sweeney". Reagan viene sospeso durante un'indagine ispettiva, i suoi nemici sono così pronti a colpirlo.
Diretto da: Nick Love
Genere: azione, poliziesco
Durata: 112'
Con: Ray Winstone, Ben Drew
Paese: UK
Anno: 2012
Jack Regan (Ray Winstone) e il suo gruppo operano come squadra volante di polizia, assicurando la presenza tempestiva di un nucleo di pronto intervento in situazioni che comportano gravi atti criminali nelle strade di Londra.
I metodi poco ortodossi di questa pattuglia li mettono però sotto osservazione da parte degli affari interni. Le dinamiche interne alla squadra complicano ulteriormente la vita al gruppo. Quando una rapina in una banca fa sospettare la mano di un vecchio nemico, sarà soprattutto Jack ad impegnare la squadra operativa allo spasimo per risolvere il caso. Anche a costo di mettere a repentaglio le loro vite e l’esistenza stessa della squadra.
Ci sono film che nascono sotto l’egida di altri. Molti film di Brian De Palma rivelano una tale dipendenza e infatuazione per alcuni capolavori di Alfred Hitchcock da essere studiati in forma comparata. Per spiegare quanto lo stile di Sam Peckinpah abbia inciso nel cinema d’azione dei registi successivi, da Walter Hill e Don Siegel a John Woo e Quentin Tarantino, ci vorrebbero saggi interi.
Appena si comincia a vedere un film come The Sweeney – che speriamo abbia chance di essere visto in Italia, ma la miopia dei distributori è arcinota – il riferimento che viene in mente per primo è uno e soltanto uno, Heat di Michael Mann. Il regista Nick Love deve averlo visto decine e decine di volte, averlo studiato con trasporto e mandato a memoria. E si può capire: Heat è riferimento imprescindibile per il poliziesco urbano degli anni Zero. Curioso peraltro che i lavori che più direttamente ne sembrano imbevuti arrivino soltanto a distanza di quindici anni e più dall’immane archetipo.
Uno è certamente The Town di Ben Affleck, che è del 2010. E poi questo The Sweeney.
Il quale ha un tale concentrato di pregi da far dimenticare la filiazione, andando pertanto al di là del citazionismo, che di per sé, passati gli anni del postmoderno, ha presto mostrato la corda (e se con Tarantino la critica è ancora divisa, uno come Pedro Almodovar pare vicino all’esaurimento. Se non altro per autocitazionismo).
Quando in The Sweeney i rapinatori escono dalla banca e vengono intercettati dalla squadra di Regan e soci, che li inchioda in un infernale scontro a fuoco, la memoria ha un sussulto, il cuore un tuffo: come se d’un tratto riapparissero Neil McCauley (il personaggio di De Niro in Heat La sfida) e la sua banda di rapinatori che, pronti a tutto, sparano all’impazzata senza tradire dubbi di sorta, con determinazione da titani del crimine.
Quando la sequenza si allarga su Trafalgar Square, un luogo così simbolico per Londra e per chiunque nel mondo, è come se fossimo di nuovo di fronte a scene da manuale di storia del cinema. Come se, passateci l’ardire del paragone, King Kong fosse ancora una volta appeso sulla vetta dell’Empire State Building! Ecco il segreto, o almeno il trucco. The Sweeney non cita soltanto. Ripristina variando, provando nuove e inedite combinazioni.
Un po’ come De Palma, dianzi nominato. Nulla di inedito, ci mancherebbe, ma almeno si ragiona su modelli, tecniche, sequenze, stile. E nonostante qua e là scappino cose che fanno un po’ abbozzare (la battuta “Sei un dinosauro” l’abbiamo sentita qualche volta di troppo, dall’ispettore Callahan in giù), il disegno d’assieme è convincente, funziona con maggiore frequenza rispetto per esempio allo stesso The Town, più compassato nella venerazione dei modelli. Tutto questo non vale solo per le scene d’azione.
Se Heat è una pietra miliare, è anche per la ricca tessitura delle storie e dei personaggi che vi si sviluppano, umani troppo umani, ma anche in certo qual modo eroici. The Sweeney risulta in questo molto più modesto, e d’altra parte stiamo parlando di un film ben lontano dalle due ore di durata e con personaggi meno eccezionali (se si esclude il granitico Winstone). L’impronta c’è, tuttavia.
Un personaggio come quello di Hayley Atwell (già vista in uno dei migliori Woody Allen degli ultimi anni, Sogni e Delitti), ben lungi dall’essere solo l’amante del protagonista, ha una consistenza e una dignità che fanno pensare, si licet, a certe eroine del cinema d’azione di Hong Kong quando quella cinematografia – negli anni 80 e 90 – sapeva produrre cinema con una necessità e un impeto oggi pressoché svaniti. Un’ultima considerazione.
Non scommettiamo niente sull’autore Nick Love. Non abbiamo visto i suoi film precedenti e non sappiamo se sia un talento, né ci importa molto. Non sono più tempi da politica degli autori, questi. Speriamo solo che come lui, ogni tanto, qualche buon regista lavori con passione e desiderio di rileggere e rinverdire i film che amiamo. Potrebbe bastarci questo, oggi.