Per vendicare la morte della figlia, uccisa da due suoi alunni, l'insegnante Moriguchi, piuttosto che procedere per vie legali decide di ideare un suo piano.
Diretto da: Tetsuya Nakashima
Genere: drmmatico, thriller
Durata: 106'
Con: Takako Matsu, Yoshiro Kimura
Paese: JAP
Anno: 2010
Confessions esce finalmente in Italia grazie alla Tucker. È del 2010, e sarebbe una gran cosa se venisse trattato come merita (sarebbe troppo, conoscendo il mercato italiano, chiedere al distributore di lasciarlo in originale e farlo uscire coi sottotitoli?
Secondo noi no, anche se la pigrizia degli spettatori è pari e a volte superiore a quella degli operatori del settore). Ad ogni modo per fortuna esce, anche se il relativo successo di film quali Departures, oggetto di operazioni analoghe, è molto improbabile. Detto ciò, a giudizio di chi scrive Confessions è il miglior film proveniente dall’Estremo Oriente negli ultimi cinque anni, al pari di Mother di Bong Joon-ho, altro capolavoro inedito. Vediamo perché. Confessions è opera di Nakashima Tetsuya, già noto agli appassionati di cinema nipponico per gli interessanti Kamikaze Girls e Memories of Matsuko, e si può considerare un radicale e sconvolgente post-atomico dello spirito e dei sentimenti. Lo sguardo è così cupo e apparentemente asettico che sconfina nel nichilismo più assoluto.
Lacerti di cultura europea – ad un certo punto viene citato appropriatamente Raskolnikov, il protagonista del dostoevskijano Delitto e Castigo – si sommano al tradizionale pessimismo nipponico. La storia della vendetta di un’insegnante a cui due adolescenti balordi hanno assassinato la figlia si carica di significati inattesi, oltre che di un’insostenibilità che è già tutta nella messa in scena. I primi parlatissimi 20 minuti di film sono di allucinante durezza: la giovane insegnante ricostruisce nei dettagli, con lucidità pari alla determinazione e alla apparente tranquillità con cui racconta la terribile vicenda, il modo in cui due ragazzi della sua classe hanno ucciso la sua bambina. L’infanticidio è già avvenuto, la vendetta è già in atto, nulla si può più mutare. Il dialogo non serve a nulla, se non a ricostruire, a torturare, a far assaporare – sadicamente e masochisticamente nel medesimo tempo – l’ineluttabile.
Come una storia tra le altre, tra le infinite che si potrebbero svolgere, il racconto di Moriguchi, sottolineato dalla musica dei Radiohead, apre la strada alle vicende degli altri protagonisti, feriti dalle relazioni con padri e madri incapaci di offrire modelli, oppressi dall’impossibilità di adattarsi dentro microcosmi, quello scolastico e quello famigliare, che non permettono valvole di sfogo alle aporie esistenziali. Temi non nuovi nel cinema del Sol Levante (si pensi a molti film di Miike e di Sono), ma declinati, si badi bene, in una forma che ospita tanto la geometria – le storie che si riannodano in un groviglio, peraltro inestricabile, di colpa e responsabilità – quanto lo scarto da ogni norma (l’abituale tendenza al virtuosismo stilistico di Nakashima trova qui appigli indiscutibili). E dunque tanto più conturbanti: il film si vede praticamente in apnea e non concede respiro, sfidando continuamente lo spettatore ad un corpo a corpo con la materia incandescente della storia che è autentico massacro, morale e psicologico.
Non si esce, se non segnati, dalla visione di Confessions. Non lo si può “misurare”, perché i suoi personaggi non hanno idealmente confini, perché le problematiche che tocca si allargano e distorcono di continuo fino a coinvolgere ogni aspetto del vivere quotidiano, denunciandone l’orrore e l’angoscia. Opera profondamente nipponica – i riferimenti, per il fan del cinema giapponese, sono tantissimi – eppure universale, mai univoca, sempre problematica, Confessions turba per giorni dopo la visione. Merito anche di una fotografia virata al grigio e di un’abile scelta musicale. Non avrà successo in Italia. Non importa. Va visto e rivisto.