L'antropologo Harold Monroe viene incaricato da una emittente televisiva americana di ritrovare in Amazzonia le tracce di quattro fotoreporter misteriosamente scomparsi.
Diretto da: Ruggero Deodato
Genere: horror
Durata: 95'
Con: Robert Kerman, Luca Barbareschi
Paese: ITA
Anno: 1979
Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato è tra i film brutti più belli che siano stati mai girati: questo perché, con piena padronanza artistica, fagocita ogni scelta creativa, anche la più scomoda, all’interno di una costruzione di senso, di una finta antimorale, di una cornice visiva coerente.
Si tratta di un’opera raccapricciante che non lesina effettacci, ma assume la sua scorrettezza a motivo drammatico; prende la forma, apparentemente seriosa, dello pseudo-documentario, ma è pervaso da una corrosiva (auto)ironia nera; presenta riprese con la camera a mano, persino con la lente della macchina da presa sporca, ma l’ambientamento in situazione è un limpido tracciato dell’orrore, eseguito pulitamente per mostrare il lerciume psicologico dei protagonisti nel pantano dell’Amazzonia; ha un cast di professionisti affidabili ma modesti (come il porno-attore Robert Kerman o Luca Barbareschi), ma tanto basta per interagire con animali e selvaggi; è pretenzioso, tanto è artato e volutamente provocatorio, ma la volontà di rasentare lo snuff movie gli conferisce l’opportuna credibilità da fiction.
Quattro reporter scompaiono nella Foresta Amazzonica, dove erano giunti per girare un documentario sulle tradizioni degli indigeni. La squadra mandata in loro soccorso, interagendo cautamente con i selvaggi, rinviene le bobine registrate e gli amabili resti dei malcapitati. in America, il professor Harold Monroe (Luciano De Ambrosis), che era stato a capo della missione di recupero, si confronta con i dirigenti dell’emittente televisiva BDC (palmare riferimento alla BBC) per decidere della pubblicazione del materiale. I guru del palinsesto si fregano le mani, pregustando l’impennata degli ascolti, ma il professore li diffida: dai filmati emerge che i fotoreporter avevano molestato gli indigeni e si erano abbandonati ad ogni sorta di predazione, per costruire un servizio sensazionale. Atrocity exhibition…
Si è spesso osservato come nella struttura scissa di Cannibal Holocaust, la seconda parte dal titolo The Green Inferno, con la proiezione dei materiali recuperati, in perfetto stile pre-found footage, sia quella più interessante. Senza dubbio, è quella più efferata dal punto di vista visivo, ma The Last Road to Hell, ossia i primi 40 minuti del film, sono non meno interessanti. L’effetto dominante della prima parte del film è quello di spaesamento, tanto dei protagonisti quanto dello spettatore, in un contesto primitivo che costringe alla decifrazione di segni altri.
Conoscendo le premesse della sparizione dei reporter, l’ambiente appare implicitamente minaccioso non solo per la diversità culturale, ma anche per il clima di thrillerhorror antropologico. Le scene dei riti delle tribù o degli irruenti tentativi di comunicazione del tarantolato capo degli indigeni, affermano un’invasione al contrario: non tanto, e non solo, l’immersione in un ecosistema potenzialmente ostile, ma anche la continua incombenza di un’aggressione di anticorpi sempre sul punto di reagire.
Nel passaggio dalla prima alla seconda parte, l’acuto paradosso è nella prosecuzione dell’horror antropologico, ma in senso opposto alle premesse: il segno “altro”, il “selvaggio”, l’oggetto d’indagine non è l’indigeno, ma l’uomo bianco e la sua incivile civiltà. Qui si fa più scoperta la critica al sensazionalismo dei media, al cannibalismo di scoop del giornalismo in contrapposizione al cannibalismo fisico della tribù amazzonica.
Ma, per l’appunto, anche quel cannibalismo civilizzato dei fotoreporter acquista una consistenza visiva e ferace, fatta di gesti da branco-tribù di drughi: fuoriuscendo dalla morale bianca ed occidentale, i codici di espressione si sono in qualche modo pareggiati. Ed ecco, allora, che il ricorso al gore della seconda parte conferisce uno spessore tematico al cannibal movie: siamo finiti in un cripto mockumentary splatter sulla grande tribù dell’uomo bianco e sulle sue derive.
Mentre l’implicito elogio del primitivo alla Rousseau che vien fuori, per contrasto, dalla rappresentazione dei reporter come mandria di scopatori ed assassini decerebrati, è tutto sommato ideologicamente banale, Cannibal Holocaust fa colpo per la propria intima contradditorietà, per l’insottraibilità allo stesso filone che pare denunciare: se, infatti, il montaggio dei reporter era, almeno, una forma di sevizia da mutare in servizio, Deodato lascia vittime sul campo meno nobile della “fiction”, visto che, come da snuff, fa uccidere davvero degli animali in alcune delle scene più sgradevoli.
Nell’ordine: un ragnone spappolato; un topo muschiato sventrato, una tartaruga sgusciata e mangiata (viva), un porcellino fucilato da Barbareschi a mezzo metro, una scimmietta (ancora viva) a cui un cannibale asporta la calotta cranica per mangiarle il cervello.
La morale della favola è dunque insanguinata, ed il film di denuncia e, in parte, di parodia del voyeurismo, risulta quintessenzialmente voyeuristico: tanto è vero che uno dei reporter muore perché non riesce a staccarsi dalla cinepresa nemmeno nella situazione di pericolo estremo, filmando il massacro dei propri colleghi.
Una vendetta sadica, certo, un’epurazione punitiva quasi tarantiniana nei confronti di un manipolo di inglorious bastards: ma un po’ ipocrita e molto furbetta. Sicché, la soave colonna sonora di Riz Ortolani, con un main theme strappato allo Schiaccianoci, piuttosto che adatto agli schiaccia-gusci (di tartarughe), non è tanto un commento alle truculenze dei massacri, quanto un commento truculento tout court in forza di beffarda distonia.
Artigianali ma riusciti gli effetti di Aldo Gasparri, così come la lurida fotografia di Sergio D’Offizi. Da segnalare anche le scenografie di Antonello Geleng, architetto all’epoca emergente, poi collaboratore di Dario Argento, Sergio Martino, Michele Soavi e di quel Lamberto Bava accreditato nei titoli di coda come aiuto regista, ma di cui Deodato nega la partecipazione (nel Dvd della Mondo Home Entertainment).
Spudorato, anche nell’ipocrisia, Cannibal Holocaust è dunque l’estremo del cinema verità che si converte, per circolarità, nell’estremo opposto: quello della fiction. Raffinando il filone dei vari Il paese del sesso selvaggio (Umberto Lenzi), Emanuelle e gli ultimi cannibali (Joe D’Amato) e del suo stesso Ultimo mondo cannibale, Ruggero Deodato non rivoluzionò né i media né il cinema, ma creò un inferno artificiale causticamente sulfureo ed anticipò di quasi vent’anni The Blair Witch Project, il cui incantesimo stregonesco esce ridimensionato dal confronto col divorante predecessore.