Assonanze, deragliamenti, ripensamenti, punti di vista architettati secondo una logica storica che prende piede, da una consapevolezza di cinema inteso come forma classica di messa a fuoco, di una tematica come quella dell’ossessione per le due materie prime, che hanno segnato nel bene e nel male la Storia del secolo scorso, il ‘900.
Sono questi alcuni tra i risvolti teorici che fanno si che Il tesoro della Sierra Madre (1948) di John Huston e Il Petroliere (2007) di Paul Thomas Anderson, si trovino nella stessa linea di demarcazione che comprenda il postulato sulla nascita del cinema, e l’idea che la progressione narrativa debba concludersi con un colpo di ellissi da cui il senso scaturisca come una condanna perpetua.
Il film di Huston e quello di Anderson sono speculari in senso storico, mettendo in scena entrambi l’ossessione per le due materie prime più importanti del secolo scorso, l’oro nel caso di Huston e il petrolio nel caso di Anderson.
Entrambi i film si possono ripensare come due opere spartiacque all’interno del genere dell’avventura, entrambe mettono in scena il crogiolo dell’avidità, due personaggi (Bogart per Huston, Day-Lewis per Anderson) che si fanno corrompere dal demone di una perenne ingiustizia sociale, dalla volontà della sopraffazione altrui a fronte di un eterno, potenzialmente infinito, guadagno.
L’ermeneutica sociale, sia in Huston che in Anderson, è ai massimi livelli: la scintilla della paralisi spirituale manda in rovina l’uomo che non riesce più a discernere la menzogna dalla realtà, questo si vede più in Huston che nel film di Anderson, che è, se possibile, ancor più radicale e pessimista.
Nel classico di Huston quella che emerge con maggior forza è la figura del cercatore d’oro professionista navigato, che diventa alla fine dottore per la tribù dei selvaggi, i quali finiscono per vedere in lui una specie di santone, dopo che questo gli ha “miracolosamente” salvato il bambino da un possibile annegamento.
La battuta che dà un senso quasi messianico al film di Huston è: perché l’oro ha tanto valore? La risposta è tanto semplice quanto beffarda: per costa tanta fatica e tanto tempo estrarlo. Di conseguenza: il suo valore è tanto alto a causa della sua rarità.
La messa in scena di Huston del problema dell’oro, si basa sull’intercapedine di una forte mitizzazione storica, nell’impossibilità cioè di farsi, dal punto d vista strettamente formale, epopea morale, conseguita attraverso la rinuncia allo “stallo d’autore”, che si era visto ne Il Mistero del Falco (1941), in cui la lentezza, l’aspettando Godot, la trattativa informale sulla veridicità del Falcone, portava ad una strutturazione di un fuori campo che stordiva, spiazzava, ammaliava.
L’oro non è come il Falcone, non è altrettanto misterioso e carico di fascino, è un metallo pregiato molto più materico e sordo alle vicenda umane. Difatti è facile impazzire per l’oro, Bogart ne rimane talmente contagiato da risultare alla fine l’unico personaggio del film di Huston a subire una fine ingrata di misera e sopraffazione.
L’oro non è come il Falcone, non è altrettanto misterioso e carico di fascino, è un metallo pregiato molto più materico e sordo alle vicenda umane. Difatti è facile impazzire per l’oro, Bogart ne rimane talmente contagiato da risultare alla fine l’unico personaggio del film di Huston a subire una fine ingrata di misera e sopraffazione.
Ne Il Petroliere Paul Thomas Anderson descrive la parabola di Daniel Plainview come quella di un imprenditore talmente ossessionato dal denaro, dal successo, dalla capacità di divorare tutto quello che incontra sulla sua strada, da non concepire l’idea della concorrenza e della vicinanza di altre persone accanto a lui che bramano il potere tanto quanto lui, dovendo necessariamente eliminare ogni voce in capitolo che ne contrasti il predominio nel campo.
Alla fine quando il predicatore-attore viene per l’ennesima volta a reclamare una parte del sontuoso impero costruito da Plainview, questo lo finisce in una pozza di sangue.
Una fine altrettanto ingloriosa, come nel caso di Bogart, ma stavolta è il Male ad aver vinto la battaglia contro se stessa, con Plainview che si ritrova senza più nemici, a contemplare un successo di cui la Storia renderà omaggio solo in termini di cupidigia e di affronto nei confronti della natura.
Il tesoro della Sierra Madre e Il Petroliere sono i due grandi film-cesura sul Novecento, tali da chiudere in senso mitico, epocale, il secolo dell’oro e del petrolio; attraversati da una sottile vena di follia, sono le uniche due testimonianze (strano ce ne siano così poche nel cinema americano) di un intervento dialettico sulla Storia, sul capitalismo come esempio di società assoggettata al potere ricattatorio della moneta, dove i rispettivi autori concedono allo spettatore il beneficio di un punto di vista sempre chiaro, ma differenziato nel quadro di riferimento delle trasformazioni, all’interno di una società in perenne trasformazione.
Con Il Petroliere Paul Thomas Anderson, autore di fatto non eccelso dotato di un talento eccelso, si può di certo affermare che abbia compiuto un’opera di mirabile fulgore narrativo ed estetico, attingendo alla memoria storica del cinema classico, attraversando le insidie di un universo visivo calibrato, muliebre, mai domo. Il petroliere è anche l’unico film di Anderson cui non si può imputare la sottigliezza sibillina del dialogo interiore, che fa di Magnolia (1999) e The Master (2012) eccezionali fallimenti di una maieutica formale senza alcuno sbocco emozionale.
Il discorso con Huston sottintende invece la divulgazione in senso mitologico dell’esperienza votata al massacro di un gruppo di uomini che si contendono il metallo della discordia. Per Il tesoro della Sierra Madre non si può parlare di capolavoro, ma di un esempio di grande cinema di genere che si incaglia magnificamente nelle spire di una vicenda atta a spogliare personaggi complessi di una sacralità che li rende semplici uomini messe alle strette davanti a scelte gravose.