I tempi passano, e il tempo in sé pesa sempre, facendo sentire la sua cappa di inevitabile ineluttabilità. Dalla filmografia bergmaniana emerge come dal nulla una perla inconsueta, che inganna e ammalia, una commedia che si mimetizza come un arcano incantatore, un flusso di emozioni raggelate, del tutto private da psicologismi e da un qualsivoglia moralismo posticcio. Il creatore di immagini (Bildmakarna), sceneggiato televisivo di Ingmar Bergman del 2000, disponibile come extra nel dvd de Il Settimo Sigillo, è una perla rara di mistificazione metascenica e di concentrazione drammatica, dove si sente ancora viva la capacità di Bergman di scrivere scene nel solco di una tradizione consolidata, riuscendo nell’impresa di costruire l’intero film come se si trattasse di un singolo dialogo di 99 minuti, senza intervalli di sorta, senza pause, senza alcuna digressione scenica.
Tutto il film è una lunga dettagliata reminiscenza della vita di due personaggi femminili, Tora Teje, l’attrice amante del regista Victor Sjostrom e Selma Lagelorf, l’autrice del libro dal quale il grande regista svedese a tratto Il carretto fantasma; intorno a loro ruotano due personaggi maschili che funzionano solo da raccordo, il regista Sjostrom e il proiezionista. Per il resto, tutto il pathos del racconto è in mano alle due donne, che mantengono il livello del dramma a vette inaudite. Ingmar Bergman sposta al passato il suo sguardo, raccontando la genesi del film che lo folgorò da bambino, Il carretto fantasma, mettendo in scena un conflitto senza tempo tra lo splendore e le miserie della scena, tra cinema e teatro. Ed è nel solco di questo eterno conflitto tra le due diverse concezioni di messa in scena che Bergman utilizza, per l’ennesima volta, il linguaggio impuro della televisione. Bildmakarna si situa nella sua ricchissima e inimitabile filmografia come una gemma inconsueta, un oggetto strano dove l’inconfessabile genio dell’artista emerge con prepotenza inaudita, ma senza farsi carico di una violenza autoriale degna di un regista che ormai ha dimostrato ampiamente tutto il suo valore.
Quello che si vede in Bildmakarna è la scena bergmaniana allo stato di pura, nuda, recitazione. L’esuberanza di Elin Klinga tende a distorcere continuamente il campo di visione, lo sguardo di Bergman è inabissato nel suo fascino ferino. L’inquadratura tenta di mettere in cornice la sua tempra, fallendo sempre nel tentativo di creare una distanza rispetto alla resa della sua performance sulla scena. E’ qui che emerge il grande gesto di supremazia registica di Bergman, nella necessità di creare tensione morale nella distanza tra l’emozione primaria e il consequente movimento ellittico di una conflagrazione scenica. Bildmakarna alterna di continuo stati di sovra eccitazione e di paralisi scenica, nel connubio potentissimo tra verità falsata e manomissione scenica. Bergman transfuga lo spirito di una contraddizione interna al femminino, introducendo l’apoteosi del dubbio quale unico rivelatore di spostamento scenico, tra l’armonia di uno sguardo sibillino e la contrazione di uno spasimo di dolore.
Cineasta in grado di fare sublime cinema del silenzio e nel silenzio di una piccola partitura da camera, Bergman osserva il mutare dei corpi attraverso la lente d’ingrandimento di un analista dell’anima, usando i piani televisivi come un’arma contundente, nascondendosi dal fascino di Elin Klinga, solo per ammirarne meglio gli angoli e per registrare con parsimonia le feritoie insite nella sua anima messa a nudo. Il doppio bergmaniano è un Sjostrom del tutto soggiogato dall’esuberanza della giovane attrice che lo bracca come una piovra. Il tempo filmato da Bergman è quello di un cinema che avanza nel nulla di una ipovisione corrotta per una mancanza di tempo ulteriore, che porta il cineasta a ripassare il tempo in cui il film di Sjostrom varcava per la prima volta la soglia degli schermi e ammaliava, seduceva, si mimetizzava, conferendo lustro all’immateriale prodigio di una fiera di fantasmi senza età.