La spirale ritorna. Francois Ozon non si smentisce e continua a lavorare intorno al tema del doppio e alle citazioni hitchcockiane. Stavolta c’è di mezzo la Prima Guerra Mondiale come mezzo attraverso cui far viaggiare il mélo, in una costruzione narrativa ardita, frammentata dalla memoria e da un senso di lutto che si protrae fino alla fine. Certo, le acrobazie horror di Swimming Pool (2003) erano ben altra cosa, in senso positivo e negativo, difatti Frantz è la migliore cosa che poteva uscire fuori dal cilindro magico che Ozon mesmerizza ad ogni visione. Dal b/n al colore la tavolozza cromatica di questo ultimo film regala perle estetiche rare ed enigmatiche. Il cast lo aiuta, l’attrice Paula Beer, meritatamente premiata a Venezia 2016 come miglior rivelazione, è un vettore di emozioni rarefatte e caustiche, il suo volto si comprime con leggerezza, puntellando ogni stacco di montaggio, dimostrando una capacità non comune di esprimere fragilità, delicatezza, insicurezza, menzogne, desideri segreti e mai sopiti. Ozon ha avuto destrezza e fortuna ad averla nel cast.
Frantz è racconto storico e sorvegliatissimo melodramma mascherato da intrigo noir. E’ una partitura calma e gelida, dove le emozioni vengono intessute in un b/n, dove le tonalità sobrie conferiscono fascino e mistero ai quadri messi in scena. Ozon racconta la dicotomia tra il nazionalismo francese inframmezzato alla sconfitta avvilente dei tedeschi, opposto alla consapevolezza del gesto moralmente sbagliato da parte del protagonista Adrien Rivoire (Pierre Niney), unita al sentimento d’amore di Anna, divisa tra il dolore per la perdita del promesso sposo e il probabile innamoramento per Adrien. Questo è il senso storico secondo il regista francese. Il gioco di specchi rivela la connotazione postmodernista del regista di Swimming Pool, dove l’immagine non è mai quello che appare a prima vista. Nulla di nuovo? Senza dubbio, difatti, la capacità dello spettatore di perdersi all’interno dei quadri impostati da Ozon è il metro su cui si giocherà il successo dell’operazione.
Quello che stavolta pare mancare rispetto alle precedenti invenzioni narrative di Ozon è la propensione per il decadimento istantaneo dell’effetto climax, che rendevano le pantomime del regista simili a bolle di sapone, sempre sul punto di evaporare da un momento all’altro. I fantasmi del passato in Frantz invece paiono reali e angoscianti, ma di un angoscia sussurrata e densa, percepibile nello scontro silenzioso tra i due giovani protagonisti. Il fascino dell’operazione sta nell’aver posposto ogni elemento narrativo in una sorta di limbo congestionato nel tempo, tale da rendere la struttura narrativa come una partitura dove le pause coincidono con i passi più gravi. Onore a Ozon, quindi, stavolta ha portato sullo schermo un romanzo storico di difficile interpretazione e di languida meraviglia.