Sarà meglio che Tarantino prenda appunti se deciderà di andare a vedere l’ultima versione de I magnifici 7 firmata da Antoine Fuqua. La struttura in fondo è classica, un dramma catartico con netta dicotomia tra buoni e cattivi. Nulla di nuovo sul fronte occidentale? Eppure stavolta non siamo dalle parti di operazione stantie come The three burials of Melquiades Estrada o Appaloosa, gli scenari del selvaggio west si aprono a vista d’occhio, nobilitati dalle panoramiche di Mauro Fiore (direttore della fotografia di origini napoletane, Premio Oscar per Avatar) che restituiscono le vette sibilline del western che fu o die quello che ne è rimasto, dopo che sono arrivati Unforgiven e Dead Man a rivisitarlo in chiave moderna.
Antoine Fuqua no. Fa le cose come se Gary Cooper e John Wayne esistessero ancora oggi, rimettendo la parola ultima ai carrelli e alle inquadrature scolpite nel marchio del cinema più antico. Perché rifare I magnifici 7 di John Sturges che a sua volta era una copia de I Sette Samurai di Kurosawa? C’è una filiazione tra le tre opere? Forse solo un destino comune di intrattenimento corsaro. le gesta dei sette cowboy che vengono assoldati da una vedova che vuole riprendersi la città e vendicare il marito contro un perfido uomo d’affari dipinto apposta come una iena senza cervello convinta di poter comprare il mondo intero grazie alle sue risorse finanziarie, è una trama che fila liscia come una fucilata, prende alla gola lo spettatore senza tanti complimenti, servita da un cast di attori super affiatati che fanno di tutto per emergere seppur silenziosamente.
Django Unchained e The Hateful Eight soffrivano dell’impronta autoriale di un autore con la a mauiscola intento a divorare il genere, con il gusto perverso di distruggerlo dall’interno. Risultato: un coefficiente drammatico pari a zero. Dall’inizio alla fine. La voglia di sospendere l’azione e sorprendere lo spettatore con una lentezza ieratica priva di fondamento narrativo schiacciava i personaggi-filosofi che non emergevano mai. Ne I magnifici 7 di Fuqua gli psicologismi sono aboliti. L’azione non lascia scampo a ripensamenti, il motivo dell’azione viene sempre messo in risalto da una regia laconica e ardita. Un prodotto di buona fattura, diretto da un regista che conosce le regole del mestiere e le applica, senza la necessità di sconvolgere il genere. Il western ha i suoi tempi e Fuqua glieli restituisce intatti.