C’è modo e modo di spendere i soldi a Hollywood. Snyder lo fa con la mania di voler fare a tutti i costi il “film assoluto”, Whedon se la prende più comoda orchestrando una moltitudine di talenti, riuscendo a far risaltare in ogni singolo elemento l’omogeneità del quadro complessivo, David Ayer sembra più pragmatico di loro, costruendo un sontuoso spettacolo classico e moderno, partendo da una graphic novel famosa solo negli USA e poco circolata in Italia. Suicide Squad presenta di primo acchitto una traiettoria narrativa molto solida pur rimanendo comunque nell’alveo del costoso giocattolo, che intrattiene con un’anima punk devastatrice e che punta a colonizzare l’immaginario collettivo.
Un critico preparato e magari un po’ pedante potrebbe evidenziare in Suicide Squad la differenza con il precedente film di Ayer, Fury (2014) con Brad Pitt, ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, war movie generalmente apprezzato per aver portato avanti un discorso dignitoso sulle dinamiche del secondo conflitto, senza però dire nulla di nuovo. Certo, è dura riuscire ad innovare con un film dove si combatte l’esercito nazista, dopo che Tarantino ha posto l’ultima parola con il suo definitivo, per certi versi lapidario Inglourious Basterds (2009). E’ il motivo principale per cui chi scrive non ha sentito alcuna necessità di vedere Fury. Allora, a prescindere dalla filmografia del suo autore, cos’è Suicide Squad? Il risultato di una visione febbrile e senza compromessi, un concerto rock-punk più che un film.
Ayer ha potuto contare su un cast è perfetto. Se ci si ricorda i disastri compiuti da Hollywood negli anni 2000 con i casting di Pirates of the Caribbean, Matrix Reloaded, Hulk di Ang Lee, la lista sarebbe ancora lunga. Ebbene, con Suicide Squad siamo ad un altro livello. Basti dire che erano quasi vent’anni che non andavo a vedere un action folle con Will Smith su grande schermo, precisamente dai tempi di Men In Black, il risultato conferma le sue qualità da intrattenitore consumato e il contesto produttivo estremamente felice eleva la sua prova ad un livello che finora era mancato, escludendo i film con Muccino. Margot Robbie si “riscatta” dopo il ruolo di donna usa e getta nell’orgia scorsesiana sex-drugs-rock’n’roll di The Wolf of Wall Street (2013), imprimendo la sua energia ad un film che non annoia neanche per un secondo. Ma è la modella inglese Cara Delevingne che ruba la scena a tutti in un ruolo ambiguo e duale (nel senso del dualismo costruito con gli effetti speciali di oggi, non del dualismo langhiano), il suo fascino androgino emerge e converge in una performance carica di tensione erotica flemmatica. Il nuovo Joker di Jared Leto è in effetti l’unico character che avrebbe meritato un film tutto suo, il suo ruolo avrebbe necessitato di un ben più spazio, la sua rimane l’unica figura rimasta appena abbozzata, ma se ne riparlerà in vista del sequel.
Il resto lo fa la colonna sonora e la regia di Ayer, che contrappunta la partitura con i modelli classici del mordi e fuggi, rifiutando a priori l’intellettualizzazione di Snyder e senza avere l’incombenza di dover gestire tante prime donne da dover rivoltare il mondo alternando grandi scene di massa rovinose con scene da camera di stampo tecnico, come fa Whedon. Ayer ha portato il suo cast sul campo di guerra e ha vinto la battaglia con lo spettatore: far uscire i personaggi dallo schermo e farli vivere oltre l’interfaccia visiva. Tematiche vecchie, risultato ben al di sopra del deja-vu.