The Bay

Una giovane in collegamento via Skype racconta quello che è successo qualche anno prima il 4 Luglio nel Maryland. Durante i festeggiamenti scoppia l'orrore.
    Diretto da: Barry Levinson
    Genere: horror
    Durata: 84'
    Con: Kristen Connolly, Will Rogers
    Paese: USA
    Anno: 2012
6.2

Metti diversi quintali di escrementi di galline, tipo Chanel nel canale, a Claridge, nella baia locale; aggiungi un po’ di scorie nucleari, ed inquinanti vari quanto basta: la broda delle mutazioni è servita. E così, gli ospiti indesiderati della festa del 4 luglio nella piccola cittadina del Maryland, presso la Chesapeake Bay, sono parassiti acquatici, che hanno già banchettato con le interiora dei pesci, ma non disdegnano la carne umana, se a qualcuno dovesse venire voglia di un tuffo o di un sorso. Panico e fistole ovunque: tranne che in tv. Il governo mette a tacere i media, lo spettatore scopre tutto con un documentario ex post, commentato da una giovane reporter che all’epoca, da stagista, si era trovata nel bel mezzo della festa andata a male. Un finto documentario, naturalmente.

The Bay di Barry Levinson è infatti un mockumentary, pensato come aggregato di vari found footage, con un’enfasi non da poco sul fatto che, per essere found, le registrazioni prima dovevano essere state lost: confiscate dal regime, ma poi ripescate, come crostacei purulenti che conservano la polpa della loro storia biologica, da un sito chiamato Govleaks (un riferimento trasparente, certo più delle acque della baia, al sito Wikileaks). Ne deriva l’aspetto a metà tra horror Report e pseudo-Superquark, con cui Levinson punta a ricostruire con patina scientifica una fenomenologia da raccapriccio, un’inquietudine strutturata, che striscia all’interno come gli esserini parassitari frutti (di mare) della mutazione, e rode le viscere. Rode, anche visivamente: le micro-camere infilate nel ventre dei pesci dai due biologi del Cousteau Institute sanno di gastroscopia dell’orrore dagli occhi di un insider – dentro la verità. Così come, ancora, i primi piani sulle epidermidi tormentate da pustole e lacerazioni, né indugiano con compiacimento, né esitano con discrezione: paiono, a tratti, uno screening diagnostico, ma di quelli che non vorremmo mai vedere.
E proprio perché il mockumentary intende profilarsi come la messa in mostra di qualcosa che era stato occultato, la ricostruzione in formato verità si avvale dei più svariati supporti della visione moderna: dalle telecamere della polizia, impietosamente scoperta a far pulizia dei morenti somministrando revolverate, alla video-chiamata di Skype, che fa da cornice all’intervistaconfessione della giovane reporter; fino, naturalmente, alle immancabili fotocamere e agli ancor più prevedibili cellulari. Un incubo ragionato, che sembra ripensare Piranha nell’era della comunicazione, o meglio, delle mutazioni – anche malevole – della comunicazione. L’effetto blob, che dal mix delle immagini intende sortire una denuncia scioccante, si manifesta in una sorta di strategia della ridondanza, per cui il montaggio del finto documentario ripropone a più riprese alcune brevi sequenze a distanza di tempo: quando, cioè, con l’avanzata della storia, e dell’onda di orrore, certi fatti presentati all’inizio acquistano un nuovo significato, orrendo anch’esso, ma dal punto di vista morale.
È quello che capita, ad esempio, alla sequenza del compiacente Sindaco che beve l’acqua durante un comizio, per tranquillizzare i cittadini ed aggirare ogni denuncia verso la condotta inquinante degli allevamenti di polli: “the best darn water”, proclama – la migliore, dannata acqua. Appunto: dannata. Non d’annata. In questa storia di cittadini scambiati per polli e tenuti all’oscuro, e di letame nascosto, la verità torna a galla come i pesci morti in superficie, o sgorga di forza come il vomito a catena dei partecipanti alla gara di mangiatori di crostacei alla fiera di paese, in un’altra scena dal sapore – sgradevole – di ripresa rubata sul posto, tra gli schiamazzi ed il panico che fanno venire alla videocamere il mal di mare.
Può anche succedere, allora, che il dottore si ritrovi in un ospedale pieno di corpi amputati e malati morenti, abbandonato da tutti, in una scena desolante e più profondamente orrenda di uno splatter cutaneo: resta sempre un aggeggio per filmare, per evitare che alle tante amputazioni taciute si aggiunga una pericolosa lobotomia, se non un asporto degli occhi dalle orbite. Con The Bay, Barry Levinson scandaglia le acque torbide dell’informazione con un mockumentary che annega abilmente ogni rischio di sterile sociologia nell’effetto shock di una verità sommersa e ripescata fino all’ultima goccia – e all’ultimo pixel – di orrore.

A proposito dell'autore

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Professore di storia dell'arte e giornalista pubblicista, professa pubblicamente il suo amore per l'arte e per il cinema. D'arte ha scritto per Artribune, Lobodilattice, Artslife ed il trimestrale KunstArte, mentre sul cinema, oltre a una miriade di avventure (in corso) da free lance, cura una rubrica sul quotidiano "Cronache di Salerno" ed in radio per "Radio Stereo 5".