Insolito caso di ricostruzione storica dove il senso di una causa perduta si trasforma nel segnale rivelatore di una insospettabile fiamma mèlo. Lo stile Merchand–Ivory trasfigura Quel che resta del giorno (The Remains of the Day, 1993) portando la Storia ad intrecciarsi con il privato di personaggi calati nell’ombra di un ruolo, sempre in qualche modo asservito ad una logica superiore. Difatti, il maggiordomo di Hopkins mai riuscirà ad esplicitare il proprio punto di vista e la propria identità, sia per ignoranza, sia per attaccamento all’etichetta.
Il film di Ivory mette in una prospettiva di devastante nitore i sommovimenti storici degli anni ’30. Lo scenografismo non risponde mai ad una scelta di formalismo pedissequo, grazie ad una regia che smuove e proietta le solitudini della servitù in modo da far apparire ancora più marcata la differenza tra padroni e servi. La strutturazione di un ordine autenticamente nobiliare di antiche radici rende il romanticismo di The Ramains of the Day qualcosa di lontano e raggelato. Ogni movimento di mdp deciso da Ivory corrisponde ad un preciso segnale di onirismo vericistico, teso a configurare una perfetta time machine dove la Storia si riflette su se stessa producendo uno specchio deformato dove poter rintracciare il paradigma della morte annunciata di una democrazia fragile e ancora incompiuta.
Sorprende il tono sommesso, lirico del film di Ivory. Si tratta della lenta germinazione di una riflessione esistenziale pudica e sotterranea che si sofferma sui volti scavati e sulle porcellane vivide, intonando una sinfonia altissima ad un tempo dimenticato e ormai fuori dai gangli della memoria. Tutto si potrebbe dire di un’opera del genere tranne che la noia prenda il sopravvento. Ivory si mimetizza perfettamente tra le pareti delle stanze, osserva i fatti dispiegarsi con furente silenziosità, come nei terrificanti meeting internazionali, dove si decide del destino di morte dei milioni di vittime della Secondo Conflitto.
The Remanis of the Day termina con una panoramica uguale e contraria a quella che si vede a inizio film. Ivory entra ed esce in punta di piedi dal suo film, quasi sospettoso del fatto che quello che ha fatto vedere in 130 minuti non sia altro che una doverosa ricognizione all’interno di un mondo in estinzione, una forma-cinema che è destinata a vivere solo in quel preciso istante. Dunque il manifestarsi distanziale del regista inglese di un racconto così pudico e sentito è la migliore cornice sull’incertezza del vedere e sul giudicare la Storia. Di ricostruzioni storiche così calibrate ce ne sono state davvero poche. negli ultimi 20 anni.