L’esperienza visiva del non-sense applicata alla dialettica impura di un cinema del non-ritorno. I fratelli Quay, maestri assoluti dell’animazione stop-motion (The Cabinet of Jan Svankmajer, In Absentia, Street of Crocodiles), quando per la prima volta si cimentano nell’operazione arrischiata ma affascinante del lungometraggio, dichiarano da subito la loro alterità al cinema mainstream. Le immagini del loro primo film, Institute Benjamenta (1995), sono avvolte in un b/n di tale rarefazione visiva, da generare un cinema virtuosistico e verticistico, dove l’amalgama dei chiaroscuri di una fotografia pastosa e muliebre rende l’esperienza visiva un’assunzione di responsabilità pesante e per certi versi unica da parte dello spettatore: quello che si sta vedendo è un tipo di cinema non riproducibile in altri contesti. Il film è di per sé un’esperienza a se stante, priva di filiazioni con qualsiasi altro modello estetico pre esistente. Questa è la forza del cinema dei fratelli Quay che, in seguito, 10 anni più tardi, alzeranno ancora di più il tiro con un film molto più ambizioso e arrischiato, più originale, ma forse meno organico del precedente, The Piano Tuner of Earthquakes (2005), quasi una versione elegante e manierata dei film surreali di David Lynch.
Institute Benjamenta presenta una narrazione di esemplare e struggente semplicità: in un tempo imprecisato, un nuovo allievo, Jakob, bussa alla porta di un istituto per apprendisti camerieri. L’istituto è gestito un uomo e una donna, Johannes e Lisa Benjamenta, rispettivamente fratello e sorella. Quando Jakob entra a far parte dell’ambiente surreale dell’istituto, il comportamento di Lisa cambia, fino a tramutarsi in una strana malattia percettiva, che la porta alla morte. Nulla si sa del perché e del percome, i fratelli Quay tendono a lasciare il film privo di qualsiasi spiegazione. L’atmosfera che si respira tra le stanze è quella di un ambiente chiuso dove l’aria non passa mai, la cura dei dettagli è ammirevole e pone in contrasto le anime dei protagonisti, sempre ambivalenti e carichi di un pathos interno di indecifrabile eleganza.
Se vi è un gran merito nei film dei fratelli Quay e soprattutto in questo Institute Benjamenta è quello di dare la possibilità allo spettatore di perdersi all’interno di un film rarefatto e privo di appigli logici. Institute Benjamenta è un territorio visivo di nessuno, un paesaggio visivo sconnesso alla percezione umana. I giochi di luce e l’assottigliarsi della distanza tra elemento percepibile ed elemento immaginativo, rende immediato l’ingresso in una quarta dimensione post-visiva, dove il Tempo assume le contraddizioni del luogo divenendo un mosaico fluido in perenne mutazione sincretica. Se si tratta di una delle più grandi dimostrazioni di mise-en-abyme della storia recente, neanche The Wan Who Wasn’t There (Joel e Ethan Coen, 2001) e Good Night and Good Luck (Clooney, 2005) sono arrivati a tanto nella rappresentazione visiva di un mondo narrativo pre-esistente alla meccanica del cinema (nel loro offrirsi come opere vicine al cinema delle origini) ma del tutto avulso ad una logica manierista e autocelebrativa (si parla pur sempre di film molto raffinati che si rivolgono ad un pubblico ristretto ed esigente).
Una postilla curiosa. Giusto per far capire come a volte il cinema capovolga le situazioni e offra ribaltamenti di campo del tutto inaspettati. Mark Rylance in Institute Benjamenta interpreta il ruolo di Jakob, il nuovo cameriere arrivato all’istituto. L’attore, a distanza di 20 anni ha interpretato un importante ruolo nell’ultimo film di Steven Spielberg, Il ponte delle spie, vincendo a sorpresa l’Oscar come miglior attore non protagonista. Rylance avrebbe potuto (dovuto?) vincere l’Oscar per il film dei fratelli Quay. La distanza tra Institute Benjamenta e Il ponte delle spie è abissale. Il primo è una formidabile operazione di cinema puro dove tempo e luogo vengono annientati di fronte alla magnificenza dell’assurdo che compenetra ogni scena del quadro in movimento. Il secondo è una diligente operazione di ricostruzione storica cine-televisiva dove viene narrato uno degli episodi cardine della Guerra Fredda.
In entrambi i film Rylance risponde alla mdp con la stessa espressione catatonica. dove gli sguardi s’intrecciano in traiettorie invisibili di una personalità ombrosa che cela inquietudini ben più profonde. Questo significa forse, che l’ingresso nella forma-cinema di Rylance sia un ulteriore dimostrazione del fatto che la ricerca della sobrietà nella performance sia l’unico elemento che dichiari il cinema come tessitura di un mondo mai nato? Rivedere Institute Benjamenta, con la sua carica di mistero, dove aver visto l’accurato disegno architettonico di Il ponte delle spie, spinge a riflessioni imprescindibili sullo statuto primordiale di un’arte come il cinema, per eccellenza arte del camuffamento e della spoliazione.