Dopo i risultati di discutibile qualità ottenuti con Un gioco da ragazze (2008) e Gli sfiorati (2011), il romano Matteo Rovere compie il salto di qualità con un film destinato a rimanere nella memoria collettiva quale apprezzabile esempio di prodotto cinematografico dallo spirito schiettamente internazionale fra tante realizzazioni italiane dal sapore tristemente provinciale.
Di Veloce come il vento non si può certo dire assomigli a uno dei molti capitoli che solitamente contraddistinguono i nostri palinsesti, imbottiti di mafia e cittadini medi mediocremente ritratti; non si può nemmeno affermare aderisca in pieno al genere della commedia come a quello del dramma, né che tutto sommato appaia nulla più di un utopico ricalco delle dinamiche a tutto gas degli action movie d’oltreoceano.
La vicenda s’ispira alle traversie del rallista Carlo Capone, trent’anni fa personalità di spicco nel mondo dello sport, e mette al centro del proprio sviluppo le precarie condizioni di Giulia, 17enne pilota del Campionato GT che alla morte del padre-mentore si vede cadere addosso le responsabilità di una casa ipotecata, di un fratellino con gli assistenti sociali alle costole e di un fratellone tossico che dopo dieci anni di latitanza si ripresenta gonfio di benzodiazepine, accollatosi la “donna della sua vita”, e animato da un’improbabile spirito di rivalsa sui diritti che gli derivano dall’essere anche lui un De Martino.
La risolutezza della giovane, disposta ad ogni sacrificio pur di vincere le ultime gare e salvaguardare l’unità familiare, e l’incontro con la sua mitica Turbo 16, conservata per anni nell’officina accanto al podere, risvegliano nel Loris ex-gloria dei circuiti la passione per le carreggiate ad alta velocità; lui, vedendosi offrire un compenso sufficiente appena a sostenere l’inarrendevole consumo di canne, si convince a prendere le vesti di nuovo allenatore, certo molto meno costante del precedente, ma altresì convinto e convincente nelle sempre più frequenti brecce di lucidità.
L’equilibrio complessivo dell’opera emerge con evidenza se si concentra l’attenzione sul conflittuale rapporto che lega i protagonisti: il ritmo non è dato puramente dalla cadenza delle sequenze agonistiche (ufficiali o meno a seconda dell’ispirazione del momento), le quali in ogni caso sanno farsi apprezzare, sostenute da un buon montaggio visivo e sonoro. L’anima risiede in quella debuttante Matilda De Angelis, già nota per essersi distinta nella fiction Rai Tutto può succedere, che prega il “Signore del sangue che corre nel buio delle vene”, provata nel corpo e nello spirito con singolare commozione, vicina al sentire del pubblico per il sua quotidiana, prammatica tenacia.
Così come la stessa anima risiede in quello Stefano Accorsi sgualcito, irresponsabile ed esaltato che, tra le mani il ruolo più impegnativo della pluridecennale carriera sin qui tracciata, restituisce una figura godibilissima, costantemente in bilico fra tragico, grottesco e comico, quasi amabile nel suo percorso di redenzione, irriducibile forza di una natura (artificiale, self-made) mai sottotono, mai caricaturale, mai iterata, se non in riproposizioni opportunamente variate. Al resto pensa Rovere, che sa impugnare le redini (meglio ancora il volante) del suo lungo con innegabile intelligenza, visto che, al di là dei leciti sforzi atti a rinverdire una tradizione emulante tutta italiana (spesso acciaccata), offre un plot tradotto in grammatica semplice e dialoghi saporiti, dalla logica lineare e comunque efficace, in cui l’elemento inaspettato è inserito quando migliori può sortire gli effetti e dove non stona il soffuso buonismo, giustificabile più che altrove.