Il quinto lungometraggio per il cinema dell’irlandese John Crowley è l’ultimo fra quelli nominati nella categoria règia agli scorsi Academy Awards ad essere arrivato in Italia. Temperato dramma sentimentale, si erge essenzialmente attorno alla figura affidata all’allora ventenne Saoirse Ronan, splendido giovane astro di una Hollywood periferica, se non quando catturato da location di tutt’altra affascinante natura. Alle sue spalle, già una nomination ottenuta a soli 13 anni come non protagonista per Espiazione di Joe Wright (2007) e una nutrita filmografia di indubbio rilievo, comprendente le lodevoli prove in Amabili resti di Peter Jackson (2009), Hanna del succitato Wright (2011), Byzantium di Neil Jordan (2012) e Grand Budapest Hotel di Wes Anderson (2014).
La narrazione di Brooklyn trae origine dall’adattamento dell’omonimo romanzo del 2009 firmato dall’irlandese Colm Tóibín operato da Nick Hornby (autore di Alta fedeltà, 1996, e Un ragazzo, 1998), ritrovatosi per la seconda volta, in seguito all’esperienza di An Education (2009), eligibile agli Oscar in qualità di sceneggiatore. Tre gli atti della vicenda riconducibili a visibili mutamenti geografico-emozionali: l’esordiale senso di disagio che la verde commessa Eilis Lacey prova in un paese privo di opportunità, ormai stretto e avvizzito, le afflizioni e la profonda rinascita spirituale causate dall’abbandono della terra madre e dall’approdo oltreoceano, il ritorno in patria, le tentazioni e il raggiungimento di una maturazione definitiva e incontrovertibile.
Aiutata da un amichevole sacerdote (interpretato dal vincitore dell’Oscar Jim Broadbent), Eilis prende in mano la sua esistenza negli anni di Un uomo tranquillo e Cantando sotto la pioggia, ospitata dalla proprietaria di una pensione femminile (Julie Walters), donna carismatica e giudiziosa, che coglie e promuove in lei quel guizzo d’intelligenza e umiltà, del tutto privo di frivolezza, estraneo alle altre ragazze del convitto, sovente invidiose e alquanto viperine.
Mai abbandonata da un soave grado di compostezza, inizialmente smarrita nella popolazione e nel ritmo vitale del quartiere newyorkese, abbattuta in maniera del tutto naturale dalla nostalgia, più che per i luoghi natii in sé, per l’anziano angelo del focolare e la sorella maggiore Rose, sacrificatasi per la felicità della minore (il valore degli autentici affetti familiari risulta assai amabile e prezioso in questa prospettiva), ella riesce giorno dopo giorno ad acquisire la giusta disinvoltura, dapprima in seno alle attività lavorative nei grandi magazzini italiani e agli svaghi culturali organizzati dai connazionali, quindi favorita da una conquista amorosa, mai precipitosa o scontata, costantemente ponderata e sentita.
Unitamente a questa progressiva emancipazione sociale, che, inserita con grande attenzione nel clima popolare dell’epoca, l’avvicina anche ad un percorso di studi il cui obiettivo è concederle un diploma in contabilità, sulle orme di Rose, e in definitiva la lega indissolubilmente alla poliedrica realtà del luogo, lo slancio luminoso preso dal tenore dominante deve molto alla stessa love story, presentata certo linearmente, ma altresì lungi dalla banalità, classicheggiante e tuttavia non stucchevole, di conseguenza deliziosamente positiva ed empatica.
La genuinità e la limpidezza della relazione messa in scena si rispecchiano nella dolcezza e nella bellezza purissime di Eilis, elementi tutt’altro che meramente epidermici; motivo fondamentale delle triadiche nomination è la capacità di Crowley di saper esaltare la delicatezza straordinaria della Ronan, per l’appunto felicemente collocata fra le candidate, peraltro schiettamente irlandese in merito a nazionalità e, in questo caso specifico, articolazione dei fonemi, di saperne catturare i sussulti dell’animo esaltandoli attraverso una personale affabilità femminea, l’incanto dei suoi iridi celesti, la sua fresca formosità, conseguendo un notevole equilibrio strutturale, che stenta ad assopirsi o a glissare sugli episodi “geneticamente” più sobri, prevedibili o di circostanza.
L’efficacia propria del racconto sta nel suo midollo sano e semplice, sigillato nell’epilogo dall’iterata trasmissione di quegli insegnamenti che, una volta cambiata pelle, la protagonista è in grado di elargire nel suo piccolo, ricolma di una ferma speranza che, forse un po’ idealizzata in principio, ora poggia su basi dallo spessore non trascurabile: attesa, deferenza, fedeltà, intraprendenza, brama di felicità al di là del lignaggio, delle proposte di convenienza, nondimeno di un cieco attaccamento all’alveo in cui fin dalla nascita è stata posta, senza che allo stesso tempo venga meno in lei il radicato rispetto per i legami di sangue, i doni e le esperienze che hanno senza riserve segnato e commosso personaggi e spettatori.