Il testo filmico, visto nella sua prospettiva anchilosante, rivela a posteriori più smagliature e imperfezioni di quante se ne possano cogliere ad una immediata visione. Il rapporto tra il testo di partenza e la traduzione filmica dello stesso annovera similitudini improvvise e l’eccitamento perturbabile della sconfitta davanti al non-filmabile. Come se il testo prima di essere filmato conservasse in sé i germi della non fruibilità filmica, una mancanza di trasparenza intrinseca che invece le immagini filmiche possiedono.
Il motivo per cui non si dovrebbero mai fare comparazioni tra il testo di partenza (romanzo, racconto, script) e il film è che la percezione interiore dei quadri immaginifici (dotati di spessore autonomo e univoco) conseguenti alla lettura non corrispondono ad una visione comune, essendo l’universo percettivo per sua stessa natura sommerso e privo di standardizzazioni estetiche. Il cinema fonda proprio su questa esigenza la sua esistenza. Sulla possibilità concreta di dare un corpo definito a ciò che non l’ha mai avuto. E’ così che davanti ad un’opera come Nel profondo del delirio di Walerian Borowczyk lo spettatore critico deve gettare la spugna davanti all’impossibilità di filmare il racconto di partenza: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson.
La difficoltà sta nel fatto che mentre il racconto di Stevenson è sostanzialmente una parabola morale sulla mancanza di libero arbitrio dell’uomo e sulla sofferenza di questo a non poter accedere ai piaceri proibiti di una seconda identità, il film di Borowczyk si addentra tra le fauci dell’inesprimibile, costruendo un mosaico di immagini ultra-percettive che puntano a stordire lo spettatore. Del dilemma morale di Stevenson Borowczyk non sa che farsene puntando tutto sullo sfacciato delirio della carne in fibrillazione, dove i piaceri e le seduzioni si mescolano ad una irripetibile tragedia borghese. Al regista interessa esprimere un cinema arrabbiato e sulfureo, quasi fosse un Polanski del tutto fuori controllo.
Il risultato è affascinante dal punto di vista visivo, ma narrativamente non risolutivo. La seconda parte del film deraglia, si distorce, si annulla nel voler a tutti i costi imprimere una svolta oscura e dissennata ad una vicenda che avrebbe necessitato di una maggiore pulizia grafica e di un ingresso nella complessità del testo stevensoniano. Borowczyk insiste su una pornografia che non necessita di delucidazioni critiche per essere ammessa o rifiutata. Il regista ammette con queste immagini di rara potenza l’insolubilità di un testo innato e cristallino, la fierezza di un discorso morale che s’insinua nei gangli più sensibili della borghesia ottocentesca. Se il contrasto tra il visivo (Borowczyk) e l’immaginifico (Stevenson) porta ad una stridente (rispetto alla prima parte) mancanza di logicità nella seconda parte del film lo si deve alla mancata quadratura del cerchio da parte di Borowczyk, che ha difeso altresì la sua libertà a lasciare volutamente l’operazione aperta alle più svariate interpretazioni.