Quattro ex galeotti si nascondono in un piccolo villaggio dell'America Latina. Pur di andarsene dall'angusto paese accettano di guidare dei furgoni contenenti casse di nitroglicerina altamente instabile.
Diretto da: William Friedkin
Genere: thriller
Durata: 121'
Con: Roy Scheider, Francisco Rabal
Paese: USA
Anno: 1977
Di certo questo è un restauro che non verrà dimenticato. La 70° Mostra del Cinema di Venezia, in occasione della premiazione del Leone d’Oro alla carriera di William Friedkin, rende omaggio all’opera più incompresa del corpus già monumentale del suo autore, gettando nuova luce su questo intransigente film maker.
Il Salario della Paura è un remake del classico Vite Vendute (1953) di Henry-Georges Clouzot, un tour de force registico considerato “l’Apocalypse Now” di Friedkin. Un film molto costoso (per l’epoca) che andò male al box office, per decenni quasi introvabile nelle videoteche, uno degli “errori” di percorso che iniziarono sempre di più a minare il rapporto dell’autore de L’Esorcista con i padroni di Hollywood.
Friedkin aveva cominciato benissimo la sua carriera, il box office gli aveva reso fama e fortuna dopo le prime tre commedie (alcune famose per l’implicazione gay), dopo si era elevato al rango di regista di nerbo con uno straordinario noir urbano che farà scuola come Il braccio violento della legge, che gareggia insieme a Taxi Driver per prendersi lo scettro di capolavoro del cinema americano indipendente degli anni ’70.
Le cose andavo a gonfie vele per Friedkin, soprattutto dopo il gigantesco successo di L’Esorcista. Ma una volta avuto tra le mani il successo, qualcosa va storto, Friedkin decide di spingere il pedale verso la follia narrativa e inizia a fare cinema per conto suo, producendo film che non incassano più come prima.
Il Salario della Paura è un film invecchiato, involuto, che parla a se stesso? Ho avuto modo di vedere per ben tre volte il film a distanza di anni e mi è sembrato ci fosse una distanza quasi totale dalle intenzioni del regista e i gusti del pubblico. Un altro French Connection non si poteva fare da parte di Friedkin (infatti il seguito andrà in mano a Frankeheimer) e allora la decisione cadde su un cinema forse limitrofo, che tentava di scandagliare il cuore di tenebra dell’animo umano.
La storia de Il Salario della Paura si diceva avesse qualcosa di maledetto, come un’operazione di alta ingegneria narrativa andata male per eccesso di intransigenza estetica.
La storia riguarda 4 ex-galeotti che per sfuggire alla galera si rifugiano in un piccolo paese sperduto dell’America Latina e che, per avere la libertà (10.000 dollari e un passaporto), accettano di guidare un furgone contenente un pericolosissimo carico di nitroglicerina resa altamente instabile da una pessima conservazione in un villaggio, dove ha accumulato un alto tasso di umidità.
E’ un plot narrativo che si cuce a meraviglia sulla carriera di Friedkin. Cineasta di successo, combina dei disastri al box office (oltre a questo Il Salario della Paura, Friedkin diresse Cruising, film gay talmente irritante da essere sempre stato disconosciuto dal suo protagonista, Al Pacino) e si rifugia nella pericolosa contemplazione del suo passato glorioso (l’action furibondo ma anche fuori tempo massimo di Vivere e Morire a Los Angeles, altro glorioso insuccesso al box office), continuando per decenni a ripetere la stessa nota stonata.
Il Salario della Paura è un opera dalla quale si può ottenere ancora un valido esempio di tensione verso il precipizio assordante della sconfitta, in cui i 4 criminali (alter ego di Friedkin), avendo intrapreso la strada verso la perdizione (trasportare la nitroglicerina in una missione impossibile), sanno già che andranno in contro morte certa, ma la loro è una condizione disperata (e quindi attualissima) che non fornisce alcun alibi a redenzioni morali.
La sorte per loro è già segnata e Friedkin, soprattutto nella straordinaria sequenza del furgone bloccato sul ponte di liane, quasi in una sospensione morente in cui il cinema stesso sembra bloccarsi e incantarsi, ne rivela ogni tratto malsano e umanissimo. Abdicando al proprio cinema nervoso di The French Connection, e rivelando la sua immaterialità giocosa e spavalda, ammorbando il cinema con il silenzio della morale negata.
Il Salario della Paura è cinema che diventa Storia nella storia, si fa uno e trino nel liberarsi del fardello della visione, essendo narrazione della paura, nell’incoscienza drammaturgica del folle viaggio che riporta ogni cosa là dove dovrebbe rimanere.
In questo modo Friedkin riflette sul destino, sul caso, sull’assenza di Dio e della Ragione. Riuscendo nell’impresa forse di superare le maglie del suo miglior film Il braccio violento della legge, poliziesco perfetto oltre il quale si credeva non si potesse sperare di andare.