É la ricerca in tutte le sue forme a caratterizzare, da qualche anno a questa parte, le traiettorie vorticose del cinema di Terrence Malick. Una tensione metafisica che, andando a ritroso, orchestrava già le derive sentimentali di To the Wonder e trovava la sua forma originaria – e, a suo modo, già definitiva – all’ombra del monumentale The Tree of Life.
Mai in passato Malick era stato tanto prolifico, rigoroso, coerente come nella sua più recente produzione. Forse perché mai si era cimentato con un progetto tanto uniforme, in un’opera a tutti gli effetti prossima alla trilogia. O quasi.
Perché Knight of Cups, deriva esistenziale di uno sceneggiatore di successo (Christian Bale) alla disperata ricerca di un senso, di una purezza perduta tra i miraggi e il vuoto del mondo del jet set, è sì l’ennesima declinazione di quella crisi dell’umano (la famiglia, la coppia, l’individuo) in rapporto con l’Assoluto, l’ultima emanazione di quel viaggio – dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande – alla ricerca del mistero della vita, ma anche l’esplicitazione dei suoi limiti.
Se To the Wonder già tradiva una certa artificiosità, sommerso com’era da uno stile debordante e oppressivo che comunque ancora si sforzava di interrogarsi, di stupire, di commuovere, Knight of Cups soffoca quello stupore dietro a uno sguardo pericolosamente vicino alla maniera e all’autocelebrazione, rivelandosi più un’imitazione che l’opera conclusiva di un trittico, solo un ramo di quell’albero che prometteva, con la sua potenza espressiva fuori da ogni delimitazione o canone, di sconvolgere le coscienze.
In capitoli che si rifanno alle carte dei tarocchi, unico appiglio narrativo all’interno di un flusso di coscienza che azzera il racconto e si perde tra le suggestioni erranti del protagonista e della macchina da presa, Malick insegue una ricerca solitaria smarrendo, nei suoi sfiancanti slanci esistenziali, la sua visione più piena, riducendo il proprio cinema a uno stile magniloquente chiuso oramai in sé stesso, nei movimenti di macchina fluttuanti, nella voice over insistente, nella contemplazione estatica.
Mentre il suo sguardo scandaglia un’inedita Los Angeles, tra spiagge deserte, homeless e party hollywoodiani, e il suo protagonista, moderno flaneur in perenne, nervoso movimento, passa da una donna all’altra, da un rimpianto a un altro, pellegrino in un mondo che pare non appartenergli, il regista texano continua la sua personale odissea nei meandri dell’esistenza umana senza riuscire a ricondurre il tutto a una visione unitaria e definitivamente compiuta.
Alla maniera di un antico principe orientale alla ricerca frustrata di una perla, perduta nel mondo dei piaceri terreni, è all’inseguimento della Grazia e della Meraviglia che Malick dedica il suo ostinato cercare e le sue tensioni ultraterrene, finendo col perdersi, però, all’interno di una poetica sempre uguale a sé stessa, incapace, forse, di rinnovarsi, di sorprendere, di ritrovare, ancora una volta, quel fortissimo senso del meraviglioso che ne ha segnato la grandezza.