Quando la visione di un poema storico è resa difficile dall’utilizzo di immagini di bellezza ancestrale e del tutto autonoma rispetto alla tendenza narrativa adottata dal regista, quando la stessa narrazione sfugge più volte di mano e ci si affanna a capire un significato totalmente estraneo a quella che è sensibilità propria di chi guarda, allora il cinema stesso viene trasportato in un’altra dimensione e lo spettatore rischia di essere risucchiato in un limbo cupo e affascinante, dove l’estrema povertà del linguaggio profilmico indica la “fine” della visione e l’inizio di un lunga peregrinazione alla ricerca della perla perduta.
Udoli vcel, da qualche anno uscito in edizione dvd (non ancora nell’alta definizione del Blu Ray come era capitato alla mastodontica operazione di cinema corsaro di Marketa Lazarova, dove il b/n risultava ancora più assoluto nei contrasti tra lo ieri e l’oggi della visione come perpetuazione in transito di un’emozione mai conclusasi con l’assoluzione di un percorso estetico ben più ampio) non ripete il miracolo di Marketa Lazarova. La storia è meno complessa, i rapporti di forza di esemplificano in una umiliazione privata tradottasi poi in vendetta pubblica, come sublime messa in accusa di una pratica pagana intollerabile agli occhi invisibili di Dio.
Nel rendere l’abominio del Medioevo il ceco Frantisek Vlacil adotta lo stesso schema paratattico di Marketa Lazarova, immergendo le figure scarne in un b/n senza redenzione, dove la violenza essendo parte intima della natura dell’uomo così come delle bestie si tramuta in una colpa endogena al quadro di riferimento, dove il bene e il male vengono sintetizzati nella stessa figura umana disperata, dove il silenzioso ronzare delle api figura un’impossibilità di modificare uno stato delle cose granitico che infonde negli occhi di ogni personaggio il cupo avvenire di una maledizione intrinseca, come se un Peccato Originale avesse bagnato quelle terre e nulla potesse accadere perché l’illusione della redenzione potesse dare pace al cuore degli uomini.
Vlacil lavora di sottrazione, annuncia una rivoluzione estetica che si compie nell’atto supremo della spoliazione verticale, attraverso un b/n rigido, pastoso, come se il Tempo stesso fosse in balia di eventi minacciosi e fuori controllo, dove l’atto stesso della visione si stempera nel lussureggiante mare di un cristianesimo che tenta in ogni modo di abbattere l’ombra pagana che si abbatte su di esso, con una forza catartica che trasformare la barbarie del crimine nella misura colma di un senso di vertigine che sa di assoluta ricompensa divina. E’ il cinema sommerso, negato all’occhio per decenni, ripresentatosi ora in tutto il suo ancestrale mistero.