Bling Ring

A Los Angeles un gruppo giovani annoiati decide di derubare le celebrità di Hollywood, utilizzando la rete come reperimento di informazioni.
    Diretto da: Sofia Coppola
    Genere: drammatico
    Durata: 90'
    Con: Emma Watson, Katie Chang
    Paese: USA, UK
    Anno: 2013
5.5

Sofia Coppola torna (ancora…) a parlarci del vuoto esistenziale (attraverso il vuoto): in Somewhere (2010) un divo di Hollywood lo percepiva, e lo subiva, il vuoto, e l’unica cosa che sembrava riscaldarlo era la semplicità del rapporto con la figlia dodicenne; Bill Murray in Lost in translation L’amore tradotto (2003), anche lui star annoiata, ritrovava la semplicità e il calore nel rapporto autentico con una ragazza conosciuta per caso a Tokyo.

Con Bling Ring la figlia di Francis, invece, rivolge il suo sguardo su un gruppo di adolescenti che guardano con bava alla bocca a un mondo popolato da personaggi come Lindsay Lohan, Paris Hilton, Orlando Bloom e via discorrendo, e cercano di emularli entrando nelle loro case, sottraendo loro denaro e soprattutto firmati e costosissimi capi d’abbigliamento, così da potersi sentire parte di quel mondo, indossandoli sulla propria pelle.
Le case dei vari divi e dive sembrano facilmente accessibili, così come la vita tutta di questi, vista attraverso i Social Network e la rete in generale, che pare ridurre considerevolmente la distanza tra loro e la gente comune.
Gli adulti sono quasi del tutto fuori campo: genitori e insegnati sono praticamente assenti, e quando ci sono vengono mostrati – con una certa faciloneria dall’autrice – nella loro più totale idiozia come ingenui pupazzi imbambolati pronti a bersi ogni cosa esca dalla bocca dai loro figli.
La Coppola non sta dalla parte di nessuno e mette in scena il tutto con uno stile distaccato: guarda la banda attraverso le videocamere a circuito chiuso delle ville dei divi di turno derubati, in lontananza da una finestra zoomando piano piano, discreta, e stando addosso loro con la camera a mano.
Se la prima parte non è priva di fascino, i ragazzi si muovono in una Los Angeles quasi deserta, lussuosa e asettica terra di nessuno, la parte finale, invece, cede il passo a sociologismi decisamente fuori tempo massimo.
Un cambio di registro improvviso, che francamente stride molto con tutto il resto, lascia la sensazione di un film che non sa bene che direzione prendere, e quello che dice e mostra è tutto sommato risaputo, e francamente detto in maniera piuttosto irritante, presuntuosa, con l’ormai abusato stile “indie pop” fighetto che contraddistingue la regista fin quasi dal suo esordio.

A proposito dell'autore

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Ha fatto e fa cose che con il cinema non c’entrano nulla, pur avendo conosciuto, toccato con mano, quel mondo, e forse potrebbe incontrarlo di nuovo, chi lo sa. Potrebbe dirvi alcuni dei suoi autori preferiti, ma non lo fa, perché non saprebbe quali scegliere, e se lo facesse, cambierebbe idea il giorno dopo. Insomma, non sa che dire se non che il cinema è la sua malattia, la sua ossessione, e in fondo la sua cura. Tanto basta.