Un attore indiano, Hrundi V. Bakshi viene invitato per sbaglio ad una festa organizzata da un facoltoso produttore di Hollywood. Bakshi trasformerà la festa in una sontuoso disastro.
Diretto da: Blake Edwards
Genere: commedia
Durata: 99'
Con: Peter Sellers, Claudine Longet
Paese: USA
Anno: 1968
Il catastrofismo di Laurel e Hardy, la follia dei fratelli Marx, l’istrionismo di Peter Sellers generano Hollywood Party (The Party, 1968), la commedia slapstick che mise il sigillo definitivo sull’autorialità di Blake Edwards.
Dopo i due successi si Colazione da Tiffany (1961), e La pantera rosa (1963), Edwards si ritrova in mano lo script perfetto, la struttura ad incastro che produce la concatenazione infinita di eventi che porta la scena ad parossismo che in futuro raramente tornerà.
L’unico altro esempio che mi viene in mente di una commedia anni ’60 per portata distruttiva e innovazioni a getto praticamente continuo, è Cul-de-sac (1966) di Roman Polanski, commedia grottesca che amplia il concetto di assurdo modellando la follia su un campo del tutto realistico, domestico, lasciano che il tragico sfoci da un senso prossimale di fine quasi deterministica, in cui eventi del tutto incomprensibili si fanno largo e lasciano di stucco.
La commedia di Edwards ha caratteristiche simili, ma trattandosi di una produzione di Hollywood il tono è molto più lieve e scanzonato, ma non per questo meno teorico.
L’indiano Bakshi di Peter Sellers in Hollywood Party non è altro che la minaccia della distruzione impellente, che viene per puro caso introdotta all’interno della casa del produttore, che altro non è che l’Hollywood System.
Edwards corrode dall’interno ogni forma di perbenismo ed ipocrisia, mettendo in scena gli ospiti come mostri di perfezione. Per questo usa caricature perfette come il cowboy o l’attrice svampita.
A collegare Bakshi con questi personaggi caricaturali c’è il cameriere ubriaco, che fa da vettore di comicità istantanea e fulminea. Ogni volta che entra in scena il film prende un’impennata micidiale e svolta verso un ulteriore livello ci comicità.
Tutta la struttura di Hollywood Party è fatta per innestare nello spettatore un’idea di affollamento e di perdizione all’interno del quadro di riferimento.
Da questo punto di vista il film di Edwards è come una giostra dove l’imperfezione tende a deformare sempre di più il dipinto in perenne movimento.
Non c’è scena in Hollywood Party che non sia la prosecuzione di un precedente atto di follia, tutto è collegato per una strana alchimia di sorta alla defenestrazione di ogni stereotipo di genere.
Tutto viene distrutto, tutto entra nella grande giostra di trovate inventata per puro caso dalla mente folle di Bakshi.
Il piano su cui si innesta questa comicità stralunata assume ogni volta i contorni di una disputa tra ordine e disordine, in cui Bakshi è l’elemento catalizzatore che imprime la svolta del gesto anarchico di fronte ad un sistema altrimenti imbalsamato e fermo.
Rispetto a un’opera cult come Colazione da Tiffany forse Hollywood Party potrebbe sembrare persino un film d’arte teorico, meno narrativo e meno incline al sentimentalismo, bensì più vicino alla tematizzazione di un processo di decomposizione in corso.
Edwards dettò la linea che in pochi in futuro hanno avuto il coraggio di seguire, ma forse si tratta proprio di un esempio di commedia fuori dal coro, un’opera talmente perfetta che potrebbe funzionare anche senza dialoghi, perché parla interamente per immagini, facendo scaturire l’azione comica sempre e solo da espedienti di script, là dove la scrittura, unita ad una direzione d’attori ad orologeria, è il vero propulsore che conferisce ad Edwards un potere assoluto, arrivando costruire una partitura i cui acuti risuonano di un’eco che non si dimentica più.