I primi non saranno gli ultimi ne Il ponte delle spie di Steven Spielberg: i minuti iniziali del magistrale prologo – quasi muto, d’una febbrilità sotto pelle, subito action con un pedinamento – saranno poi contraddetti da tutt’altro sviluppo, non appena dai cani da presa della sicurezza americana la macchina da presa passa alla comoda poltrona di Jim Donovan (Tom Hanks). Così, dalla spia sovietica in apparenza inoffensiva (Mark Rylance), ma ferocemente braccata fino al blitz che lo sorprende in maniche di camicia, si passa all’avvocato di cause assicurative, che nell’ovattata penombra del club sorseggia liquore, blandisce un collega e si prepara a diventare avvocato delle cause perse (cioè, della spia di cui sopra). Ecco, allora, che l’incipit hitchcockiano che prometteva Le Carré trasfigura in Frank Capra e capisci presto che il titolo conteneva uno pseudo-spoiler: altro che spionaggio, l’ultimo del regista di Lincoln è ancora un film sul concetto di americanità, per un terzo dramma da tribunale e per due terzi garbugli diplomatici, niente affatto silenzioso – anzi, quasi verboso – e con l’azione confinata alle stanze dei bottoni.
Il ponte che fa da sfondo alla guerra fredda raccontata da Spielberg è dapprincipio quello di Brooklyn, nell’anno di grazia del 1957, anzi, assai poco di grazia, visto l’accanimento contro la spia sovietica (persino del giudice super partes) e di riflesso sull’onesto avvocato del diavolo che ne ha accettato la difesa. L’azione si sposta poi a Berlino, quando la guerra fredda si scalda con l’abbattimento di un aereo spia americano in terra sovietica: allo stesso Donovan/Hanks viene affidato il compito di negoziare lo scambio tra il proprio assistito ed il pilota americano sopravvissuto, ma finito nelle carceri dell’Unione Sovietica. Se ne ipotizza il luogo – il ponte di Glienicke – ma vanno messi d’accordo Stati Uniti, Urss e Germania Est. Difficilotti i dialoghi con un muro in costruzione.
In tema di dialoghi: per fortuna che alla sceneggiatura, insieme al quasi debuttante Matt Charman (Suite francese), ci fossero i fratelli Coen. Nelle loro mani, il pistolotto di storia e di etica, se non di epica, viene costantemente stemperato con del sano umorismo che alleggerisce lo scontro tra le superpotenze e colorisce con toni corrosivi i burocrati più imbelli e gli americani più forcaioli. Attento a dipingere un clima da “caccia alle streghe”, Spielberg quasi approntava nella prima parte una versione in chiave anticomunista de Il buio oltre la siepe. In terra tedesca, grazie anche alla fotografia di Janusz Kaminski che rende bene il gelo meteorologico nel mezzo del gelo diplomatico, si respira meglio la tensione della cortina di ferro; si assiste, per sequenze crude ed iconici scenari, al fenomeno storico della costruzione del muro, che il cinema fa mito; si beatifica definitivamente l’uomo comune Donovan come eroe americano, la cui vera missione è quella di ricordare ai propri connazionali lo spirito della nazione custodito nella Costituzione.
È chiaro come il volto pulito di Tom Hanks, un po’ alla James Stewart, sia l’ideale per Spielberg: la sua recitazione tutta d’un pezzo non delude, ma nemmeno sorprende. Mark Rylance, piuttosto, è un piacevolissimo outsider che recita di grinze e battute laconiche. La loro umanissima complicità travalica le differenze culturali e le barriere politiche, facendosi implicitamente inno al dialogo e condanna delle paranoie. Nel cinema puro, dove è quasi tutto esplicito. Più lineare che intricato e intrigante, più appassionato che appassionante, più interessante che mozzafiato, Il ponte delle spie innesca l’applauso telecomandato, ma almeno si salva dalla retorica. E forse ricorda a chi comanda come salvarci ai giorni nostri.