É Cinema nel vero senso della parola quello di Hou Hsiao-Hsien. Un cinema capace, come pochi altri, di elevare la propria specificità linguistica a opera d’arte, di spiazzare e coinvolgere con la forza incontaminata delle immagini, della messa in scena, di uno sguardo personalissimo e poetico. Un cinema estremamente consapevole, in grado di tramutare la visione in qualcosa di realmente inaspettato ed eccezionale.
Premiato, non a caso, per la miglior regia alla sessantottesima edizione del Festival di Cannes, il regista taiwanese, dopo un’assenza lunga otto anni, torna dietro la macchina da presa con un’opera tanto anomala quanto tenacemente in linea con la propria solida poetica, con un sentire immediatamente riconoscibile anche quando cambia pelle, persino quando si immerge, inaspettatamente, nell’inedito sfarzo del più tradizionale dei wuxiapian. Da un contesto storico e politico ben delineato fino a un intreccio fatto di corruzione, tradimenti e intrighi, è proprio il più classico schema dei film di cappa e spada cinesi ad essere stravolto in The Assassin. Hsiao-Hsien snatura, asciuga e sovverte il genere di riferimento in un film capace di alterarne la logica di fondo, la forma codificata, il gusto centripeto e coreografico per la rappresentazione dell’azione.
Servendosi di un genere e di un filone tra i più prolifici del cinema orientale, il regista di Città dolente compone, con una ricercatezza espressiva costante e assoluta, un personalissimo e avvolgente affresco intimista, un trionfo antispettacolare e contemplativo che, con gusto pittorico ed estrema grazia formale, distrugge regole e direttive ben consolidate inventandone di nuove e inedite, in un viaggio di conflitti (anche, e soprattutto, interiori), rivalse e amori che porta con sé i segni, ispiratissimi, di una visione unica e irripetibile. Attraverso la storia di Nie yin niang, spietata assassina inviata in missione dalla maestra del suo ordine nei luoghi della propria infanzia, per uccidere l’uomo a cui, un tempo, era stata promessa in sposa, Hsiao-Hsien compone un film formalmente perfetto nella sua unicità espressiva dove a una vicenda tanto intricata da essere ostica nel suo accumulo di fatti e antefatti, si contrappone l’impatto immediato e avvolgente delle immagini, la forza struggente e muta delle più contrastate emozioni umane.
Attraverso persistenti campi lunghi volti a valorizzare un’elaborata composizione pittorica fatta di veri e propri quadri animati, tra movimenti di macchina lenti e ipnotici, avvolgenti e discreti e per mezzo di un rigore armonico e destabilizzante nel tracciare coordinate a sé stanti, emotive prima ancora che funzionali a qualsiasi trama, a qualsivoglia convenzione di genere, The Assassin esplode con la forza silenziosa della propria poesia trattenuta, con la struggente e sofferta malinconia degli sguardi – spesso parziali e celati – della sua eroina (la bravissima e bellissima Shu Qi), donna tenace e ribelle, sovversiva come il film di cui è incontrastata, combattuta e innamorata protagonista. Persino la violenza, sotto forma di un’azione funambolica e risolutiva, in questo anomalo wuxia, viene a perdere la propria centralità, spesso smorzata repentinamente come è iniziata, o spentasi lentamente, in sordina, ignorata e relegata a un fuori campo che cede la scena ai silenzi e agli affetti, a un sentimento più forte di ogni imposizione, più grande di ogni dovere o regola. Un luogo dove anche il cinema può riscoprire sé stesso e farsi, finalmente, capolavoro.