Avengers: Age of Ultron di Joss Whedon non inizia e non finisce. Il suo moto perpetuo è la dannazione del nuovo blockbuster hollywoodiano. Una sistema costruito sulla bulimia del capitale, dove i 250 milioni di budget devono essere nascosti all’interno di una narrazione che si predisponga come un organismo a se stante, vivo dentro l’occhio dello spettatore che chiede l’affabulazione perenne; tramutato in chip cosciente dentro l’occhio dello spettatore critico. Là dove il primo si abbandona al plot narrativo senza remore alcuna, il secondo giunge allo stesso effetto dopo che la barriera dell’incredulità è crollata. Questa interfaccia tra le due visioni è ciò che rimane dell’immagine in seguito alla sedimentazione dell’effetto speciale nella retina. L’immagine vissuta dal di dentro è talmente potente e dionisiaca da far dimenticare a chi guarda il pre-filmico e il post-filmico, soggettivizzando le caratteristiche peculiari dei characters supereroistici.
Joss Whedon è un cineasta-demiurgo. La sua produzione onnicomprensiva va ben oltre i giochi paratestuali del Raimi dei tre Spider-Man, oltre il tentativo da screwball comedy supereffettistica del franchise di Iron Man, oltre i battibecchi spazio-temporali di Underworld e Van Helsing. Il suo Age of Ultron non deve più chiedere scusa per l’oltraggio del rapporto umano-cibernetico, dato che la fusione in questo suo ultimo film si compie in modo talmente naturale che l’innaturale viene epurato dallo schermo. Niente imbarazzo quindi, se il “dipinto digitale in movimento” di questo ultimo Avengers riempie gli occhi con un compendio di effetti speciali da far venire l’infarto al più assiduo game-player. Il team tecnico è super affiatato, l’estetica sovrabbondante di Avatar è passata indenne dalla feroce requisitoria temporale, nessuno quasi più ricorda quei movimenti di macchina tellurici, dove James Cameron doveva davvero chiedere scusa all’estetica cyber-punk per aver unito componente umana e sintetica con la tecnologia che creava gli avatar e dava vita a ciò che per sua stessa natura era considerato non-esistente e “finto”.
Il videoludismo di Avengers: Age of Ultron, successivo ai capitoli fenomenali di Captain America The First Avenger e The Winter Soldier è inventato sulla base di un non-sense catartico, una funzione algebrica all’interno di una narrazione che fa del codice estetico del martirio visivo il fulcro della sua potenza martellante, rivolta verso una sorta di assolutismo visivo. Il cast è semplicemente superlativo. Senza se e senza ma. Difficile non entrare in un mondo alternativo supereroistico con attori perfettamente calati nel ruolo, dove la dialettica non necessita di una giustificazione contenutistica che dia valore a dialoghi naturalmente pensati per una spazialità filmica. Il tessuto della narrazione viene tenuto insieme da una matematica di genere che si serve di se stessa per imprimere il suo segno epocale in una fase storica dove passato, presente e futuro sembrano combaciare rovinosamente e immaterialmente nel flusso digitale dei social e degli schermi, dove il visivo e il narrativo lottano costantemente per cercare di ricreare un’altra realtà parallela a quella esistente.
Se si guarda in particolare alla performance di Elizabeth Olsen si può vedere come la naturalezza abbia preso del tutto forma nel corpo innaturale del personaggio sintetico. La Olsen si propaga come una messa di sensazione stridenti al telluricismo della regia oltre-filmica di Whedon, capendo all’istante come il gioco della prospettiva cinecomix sia una revenge postuma ad un sistema produttivo per anni ingessato a favore di una rilettura compilativa delle tavole fumettistiche. La Olsen si pone quindi come faro recitativo per ogni caratterista a venire, mutuando la propria esperienza videoludica all’invisibilità congenita della propria eterogeneità al contesto supereroistico, visto come humus privilegiato alla natura superomistica del cine-fumetto. La dove prima c’era solo la Black Widow/Scarlett Johansson a tenere la bandiera di un femminino spavaldo all’interno di un modello prettamente maschile, ora Elizabeth Olsen colma per la seconda volta il vuoto rendendosi una delle migliori interpreti nel ruolo di passaggio tra umano e sintetico.
Anche se Avengers: Age of Ultron non possiede nulla del carattere sovversivo della fantascienza cyber-punk, la sua caratura estetica ne connatura la visione verso i lidi di una consapevolezza di genere mai raggiunta prima: la fusione cyber-genetica genera la bulimia visiva ripulita dall’intolleranza genetica colpevole tipica dell’occhio critico (il duello sfiancante tra Hulk e Iron Man lo dimostra). Il movimento dell’action-fantasy si ricopre per l’ennesima volta come nudo vertice della moderna cinefilia, concepita per non mandare messaggi in bottiglia, bensì per creare emozioni complementari al desiderio di rivincita nei confronti della realtà. Il pubblico nerd è avvisato: da Avengers: Age of Utron non si esce se non con le lacrime agli occhi. E’ l’effetto Olsen che si propaga come un canto del cigno d’altri tempi. E pensare che alla prima visione la noia aveva preso il sopravvento! Ci sono voluti mesi prima che l’immagine si sedimentasse sulla corteccia temporale e producesse l’effetto voluto da Whedon. E’ anche così che nascono imprevedibili narrazioni aurorali senza andare a scomodare imperativi moralistici posticci.