Far ripartire l’immaginario visivo da zero sembra essere la prerogativa del cinema più autorialista che c’è oggi in circolazione. Dopo Albert Serra un nuovo autore si è concentrato sul luogo della dispersione del cinema, intesa come procedimento di eliminazione dei punti cardinali all’interno di un quadro il cui movimento supplisce ad una mancanza di prospettiva scenica: l’argentino Lisandro Alonso. Il suo Jauja (2014), presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2015 ammette lo stupore come emozione indefinita davanti ad una costellazione di immagini che fanno della dispersione (di cui si diceva sopra) il linguaggio primario, la fonte ultima di ogni conquista del linguaggio filmico.
Jauja è un film che parte dal presupposto che la sperimentazione sia un luogo dell’anima, un metodo di scoperta della narrazione interna al quadro in movimento. La storia narra in modo del tutto misterioso di una leggenda riguardante un deserto chiamato appunto “Jauja” dove un padre e una figlia si ritrovano a vagare, immersi nella natura più selvaggia. Quello che succederà si può annoverare come un susseguirsi di situazioni al limite del surreale, dove lo sguardo più che la narrazione assumerà i connotati di una perlustrazione di anime in cerca di un preludio ad una rivelazione messianica, che arriverà solo dopo la separazione tra i due. Il finale non lo si può svelare per non rovinare la sorpresa, ma è tutto da vedere e lascerà negli occhi un senso di incredulità e di smarrimento tali da necessitare di una seconda visione che simuli la ripetizione di un’emozione trascolorata nell’ere di miti e leggende notturne.
Il lavoro che Alonso fa con i due attori protagonisti tende a rivelare il discorso sul rapporto tra padre e figlia insito nel contesto di quella che in seguito diventerà una fuga con conseguente caccia all’uomo. Alonso segna nell’equazione del rapporto amoroso di filiazione un valore che trascende le parti in gioco. La figlia desidera fuggire con l’uomo che ama, il padre intende proteggerla non sapendo il futuro che la attende. Ciò che interessa ad Alonso allora è fuori campo, oltre l’orizzonte degli eventi. Il suono del silenzio di una vegetazione che parla di un tempo ormai possibile solo nei sogni si fa emblema di una risonanza grafica ai limiti della trasfigurazione barocca, dove il minimalismo visivo disegna rette convesse e angolazioni spurie nel ritratto di un’umanità in cerca di risposte alle domande di un’esistenza compromessa, lontana da una qualsivoglia giurisdizione moderna. Ciò che fa Alonso, quindi, è regolare i termini di una disputa ben più ampia. Nell’illusione che il verbo della perdita diventi la sintassi di una conquista ben più proficua e magmatica. Jauja è la lettera segreta di una grande poeta che scarnifica le parole, usando un linguaggio ruvido e pieno di ellissi. Da confrontare con Historia de la meva mort (2013) di Albert Serra e per certi versi con Mulholland Dr. (2001) di David Lynch.