A differenza di Nanni Moretti, Josh Screbnick – ex documentarista prodigio, che da un decennio è bloccato nel montaggio di un ambiziosissimo lavoro “sull’America” – non si sente uno splendido quarantenne. Lui e la moglie Cornelia non possono avere figli, eppure rappresentano in pieno la medietà della coppia borghese newyorchese: colti, intellettuali, aggiornati su ogni innovazione tecnologica, guardano i film su Netflix e frequentano un’altra coppia borghese, molto simile alla loro ma con prole. Un’inconfessabile insofferenza nei loro confronti fa capolino, ed ecco che si imbattono in un’altra coppia molto più giovane, ventisettenni orgogliosamente hipster, maniaci di vinile e di videocassette e allergici a ogni sorta di prodotto proveniente da Apple et similia.
Dapprima, la conoscenza di questi giovanotti apparentemente anticonformisti si rivela eccitante, e potenzialmente produttiva anche da un punto di vista creativo e professionale. Josh entra subito in sintonia con Jamie, aspirante cineasta che dichiara di apprezzare molto il suo operato e di essere onorato di poter collaborare con lui. Cornelia, leggermente più scettica della nuova amicizia instaurata, si fa comunque coinvolgere dall’entusiasmo del marito, al punto da ritrovarsi entrambi in una delirante cerimonia purificatrice tardo-hippie con allucinogeno peruviano annesso. Qualcosa, però, nel rapporto tra le coppie comincia a scricchiolare sempre più, fino a diventare palese l’ipocrisia che suggella i modi di fare di Jamie: ed ecco che l’attenzione di Noah Baumbach ai dettagli e alle piccolezze si rivela funzionale e dirompente.
Dopo Frances Ha, il regista e sceneggiatore torna a raccontare la generazione di suoi coetanei, tratteggiando due ultraquarantenni che fanno grande fatica a trovare una propria autonomia, senza dover ricorrere al confronto con le vite degli altri. Il film parte dalla riflessione ormai un po’ inflazionata che la vera giovinezza si conquisti con il passare del tempo e con l’esperienza; si chiude, però, con un dolceamaro elogio dei limiti del nucleo famigliare, e con una fiera e orgogliosa presa di posizione a favore dell’onestà intellettuale e della ricerca della verità artistica. Per farlo, Baumbach contrappone il disorientato Josh (un lunatico ed efficace Ben Stiller) al meschino Jamie (un insopportabile ma indovinato Adam Driver), ponendo in contrasto due generazioni agli antipodi: da una parte, quella di chi si serve del progresso tecnologico per la paura di non essere al passo coi tempi; dall’altra, quella di chi lo rifiuta con il fine opposto, ribadendo freneticamente la propria mondanità modaiola e pseudo-alternativa.
Jamie è l’emblema dell’hipster finto interessato, che millanta una curiosità e una generosità nei confronti dell’altro, esclusivamente per utilità e per affermazione professionale. Dal look programmaticamente vintage a una cultura pop esclusivamente di facciata, Baumbach si dimostra impietoso nella descrizione di questo universo viziato e figlio del benessere economico, abituato a costruire la forma prima del contenuto, schiavo delle pose e ossessionato dal trend emotivo, estetico e culturale del momento. A tal proposito, il personaggio di Stiller, sedotto e abbandonato, si rivela un ribelle solitario, che rifiuta l’idea che la mancanza di talento possa comunque veicolare al successo e al riconoscimento artistico. Cinico e geniale Baumbach quando fa rilasciare a Jamie il commento che chiude il film, nell’intervista a un magazine patinato, perfetta espressione del vuoto pneumatico che caratterizza il suo modo d’essere: “Se sono un hipster? Beh, se ho una certa età e porto i pantaloni attillati, allora sì, lo sono”.