La poesia della devianza sempre essere il tratto distintivo con cui Bruno Dumont si approccia alla realtà delle campagna francesi, desolate, popolate da personaggi la cui curiosità grottesca fa tutt’uno con un’idea di cinema appena abbozzata, ma sempre tendente alla trascendenza estetica. La miniserie P’tit Quinquin (2014) presentata al Festival di Cannes in proiezione speciale risponde ai canoni formalisti del suo autore. Chi ha visto Twentyine Palms (2003) e Camille Claudel 1915 (2013) ricorderà la sensazione di eterna precarietà delle situazioni tali da mettere in moto un terremoto emotivo che puntava a disorientare lo spettatore, facendo perdere progressivamente il punto della situazione.
In P’tit Quinquin la narrazione viene distesa su un tappeto drammatico talmente insistito nei dettagli, il più delle volte insignificanti, dove l’improvvisazione della drammaticità veniva elevato all’ennesima potenza. Dumont sostanzialmente si fa portavoce di un’umanità peregrina accentuando il limite ultimo della visione, ovvero l’inguardabile come elemento perturbabile di una realtà senza senso, dove la chiave di lettura è insita nel fuori campo. Così la storia di P’tit Quinquin, venendo frammentata in episodi di interesse dubbio finisce per creare una distanza totale tra lo spettatore e i personaggi, dove Dumont si inserisce formando dei quadretti satirici, dove l’umorismo da carta vetrata tenta disperatamente l’approccio orrorifico ad una realtà di perenne disgusto.
Non c’è nulla di male a voler decostruire la narrazione. Lo fanno Albert Serra, Abdellatif Kechice, Pablo Larrain, ma il loro talento è basato su una visione complessiva del girato estremamente lucida, mai contorta o manierista. Il Dumont di P’tit Quinquin vuole invece offrire una visione intimista della provincia mettendo in scena un apparato visivo televisivo deformandone i caratteri per il grande schermo. Questa fusione tra estetica da piccolo e da grande schermo genera un collasso emotivo che si riverbera ad ogni episodio. Dumont vuole vederci chiaro nella storia di delitti consumati in un piccolo paesino della campagna francese, ma porta avanti un’investigazione da operetta che vorrebbe illudere lo spettatore su un intrigo a cui non crede minimamente.
Quindi come ci si deve comportare davanti a un prodotto come P’tit Quinquin? Si viene introdotti ad una trama gialla che alla fine resterà senza colpevole (come nei film di Haneke), si dovrebbe ridere delle pantomime dell’agente di polizia Bernand Pruvost, sempre al limite della caricatura e infine tenere conto di una rappresentazione sociale che intende far luce sullo stato della campagna francese, sulle sue meschinità, sul razzismo strisciante e sulla povertà di luoghi spogli, quasi selvaggi. Quello che emerge è la perfetta confusione ideologico-estetica di un prodotto polimorfo che non prende mai una sua direzione definitiva. Il cinema di Dumont rimane pasoliniano-antoniniano fino nell’anima, ma stavolta tenta di nobilitarsi con un retrogusto d’infingarda nostalgia per i classici della comicità che non gli era mai appartenuta e mal si concilia con il suo modo di fare cinema del tutto intransigente. Se la perfezione non sarà mai prerogativa del regista francese, il grottesco esistenziale ne è il dettame più prossimo alla constatazione di una promessa annunciata e mai mantenuta.