La preveggenza di Memento (2000) sullo stato di crisi del cinema americano della prima metà degli anni ’00 rimane impressionante. Per far luce sullo stato di una fase così nera attraversata dal cinema americano nella prima metà degli anni ’00 bisogna tornare al film che previde con precisione quasi chirurgica questo straordinario stato di afasia produttiva: Memento di Christopher Nolan, all’epoca oggetto di una lampante denigrazione da alcune parti della critica italiana, che non ne capì l’importanza seminale, la collocazione universale in un contesto dominato da una retorica stilistica ancora in bilico tra le istanze estetiche datate anni ’90 e il nuovo cinema digitale, che riempiva con autistica bulimia tutto il tessuto produttivo della Hollywood dei primi anni ’00. Ce li ricordiamo i disastri di The Cell di Tarsem, Planet of the Apes di Burton, X-Men di Synger, The League of Extraordinary Gentleman di Sommers e del franchise di Matrix.
Per non parlare dei tentativi maldestri di ricopiare il De Palma degli anni ’80: Requiem for a Dream (2000) di Darren Aronofsky rimane la vetta dello squallore estetico, dello smarrimento ideologico di un’intera industria. Cosa accadde perché si potesse arrivare ad una situazione così negativa? I motivi possono essere molteplici, politico-estetico-produttivi, ma il discorso potrebbe portare su altri lidi e basta limitarsi a dire che oggi, a distanza di oltre 10 anni, quei film non si possono più vedere. Il tempo ha fatto il suo corso e ha calato la sua mannaia. Si tratta di film invecchiati male di registi senza una guida. Non si può dire la stesa cosa di Memento. Un film difficile che costringe lo spettatore ad immagazzinare una quantità di dati impressionanti per poi metterli consequenzialmente in discussione, capitolo dopo capitolo. Un tour de force dove il regista-illusionista crea la chimera di uno script a prova di bomba, dove la scena successiva crea uno scanner psico-emotivo che permette allo spettatore di entrare dentro la mente del protagonista avendo il privilegio di una visione non soggettiva ma oggettiva.
Per poter operare uno scarto estetico così forte c’è bisogno di una regia di ferro, alla Hitchcock. Nolan dimostra di possedere uno sguardo vitreo, lucido, in perfetta simbiosi con una forma ipercontrollata dove il protagonista si trasforma in detective di se stesso, andando ad indagare un reale inconoscibile per definizione. Nolan dunque prevede la crisi del narrativo nella Hollywood dei generi, si fa carico di costruire un cinema-mente che collauda la struttura narrativa perfetta nascosta dentro un film che si prefissa di fornire soprattutto un intrattenimento di altissimo livello, in un contesto dove l’eroe classico con riesce più a trovare il posto nel cuore dello spettatore. Nolan si destreggia nel labirinto di una crisi che arriverà come un uragano silenzioso, divorando tutti i cineasti classici, da Scorsese a De Palma, da Spielberg (forse il peggiore negli anni ’00, da A.I. fino a The Terminal) a Woody Allen. Memento offre la controparte estetica alla coscienza malata di un cinema in agonia perenne.
L’indifferenza della critica italiana si produce in un equivoco a venire. I due più alti esempi di autorialismo del 2001, Mulholland Dr. e The Man Who Wasn’t There finiscono nelle classifiche dei film migliori dell’anno. Nolan venne accusato di meccanicità, eccesso di scrittura. Mentre nel binomio sopracitato dei Lynch/Coen l’unico motivo d’interesse rimane il brand dei rispettivi autori. Dalla trama eternamente confusa (ma di scarsa importanza vista l’importanza capitale del ritorno alla regia del Maestro autore di opere seminali quali Blu Velvet e Lost Highway) ai colori sovraeccitati, ad un’atmosfera morbosa che delinea alla perfezione un quadro in movimento che si fa cinema solo grazie ad un “directed by David Lynch” stampato ad ogni inquadratura; fino al Bingo in Chiesa, al Cristo crocifisso in b/n, alle tonalità dei grigi sul volto perennemente spaesato e vagamente inespressivo di Billy Bob Thornton, fino alle navicelle spaziali degli ufo e alla sedia elettrica che fa ascendere il protagonista invisibile ad una morte del tutto invisibile, per un film più che dimenticabile inserito in un contesto dove il marchio dei Coen si erge come eterno ritorno di una complessità solo annunciata, mai raggiunta. Nel caso specifico del film dei Coen, se si vuole vedere una versione più sobria e meno petulante di “cinema di una volta” si riveda Shadows and Fog di Woody Allen, un grande film dimenticato che ricorda come si faceva veramente il b/n a Hollywood.
Memento è un’altra cosa. Lo spettatore è al centro di un mistero che viene messo continuamente in discussione. Per puro piacere di script. I lampi di regia sono spesso arazzi infuocati e solenni. Si passa dal pensare al protagonista come un insostenibile freak demente, fino a considerarlo un genio del metodo e della follia controllata. E’ un cinema anche odioso e oltraggiosamente radicato in un sistema di regole ferree quello di Memento. Nulla viene lasciato al caso, ogni scena concorre alla presunzione d’innocenza del villain (Joe Pantoliano), il thriller si fa acuminato genio soprattutto quando compare un caratterista di genio come Callum Keith Rennie, capace di offrire una performance febbrile, puntuale, straordinaria. Ciò che emerge dopo svariate visioni del film a distanza di anni è la sensazione che il regista si sia messo al servizio di una storia del tutto sensata, organizzata in modo glacialmente quadratico, lasciando che lo spettatore rimanga con dei dubbi insolvibili al termine delle due ore. Senza autorialismi, manierismi, piagnistei e con un’etica della visione ferrea e malvagia.