Immagini aliene. Un colpo al cuore. E’ l’esordio del regista rumeno Lucian Pintilie, Duminica la ora 6 (1965). In soli 76 minuti si vive la magia del ricordo. L’esplosione di colorate tonalità grigie connaturate al bianco e nero d’altri tempi. Il momento della visione si eleva nel momento in cui la perdita del senso di libertà per i due protagonisti si identifica come una sventura già annunciata, emblema universale di un regime fascista (la vicenda è ambientata negli anni ’40) mai sepolto. 76 minuti bastano per raccontare il mondo eterno della fuga, del rimpianto e della giovinezza infranta. Con un cinema così antico e povero si può ancora avere la fortuna di tornare indietro di decenni e assaporare ancora il limite di una visione negata dal tempo.
Negata dalla Storia, dal tempo, dal mercato che impazza ogni anno con prodotti sempre più nuovi e fatui. Hollywood ha certamente prodotto negli ultimi tempi cose notevoli, soprattutto nel campo dell’intrattenimento puro. Se non altro, sono cose che sa ancora fare. Per il resto, meglio rifugiarsi nelle visioni limitrofe, andare a coccolare gemme perdute di immaginari dimenticati. Lucian Pintilie ha raccontato i dolori e le miserie del suo popolo con acuta destrezza, catapultando lo sguardo là dove il mondo era ancora in balìa del terrore. Ed è il terrore il protagonista di Duminica la ora 6. Il terrore della perdita e dell’inganno, della svolta criminale e del pentimento mai sussurrato. Servendosi di un impianto classico forse memore dei capolavori di Rossellini il regista rumeno dichiara guerra esplicita al regime facendo sentire allo spettatore il fiato sul collo dei personaggi, la miseria semplice di volti scavati dalla remissione di ogni illusione, lo svanire dell’ideologia, i colpi sordi degli agenti della polizia fascista.
Così l’immagine dentro la vita se ne va per non tornare più. I due compagni intenti nell’atto di sovversione del regime non riusciranno a vivere la loro unione fino in fondo, la loro libertà sarà solo quella di morire e di tradire i propri compagni. Il finale sul rive del mare uccide ogni speranza negli occhi sereni del giovane protagonista. Dopo aver visto morire la ragazza (in una scena quasi da cinema muto, di spettacolo solenne e selvaggio) vede i suoi aguzzini e non può far altro che lasciare la scena in un campo sfocato, dove la sua figura si perde annunciando una rotta sommersa nella visione circolare della Storia. Pintilie sapeva come si doveva fare il cinema vero, politico, endemico, quello che scava sotto la pelle e ruba il romanticismo per creare discrepanze con una realtà ignota e ingorda di sogni e di dubbi.
La versione restaurata dell’esordio di Pintilie lascia ancora intatta la forza grezza di un’immagine primaria e plurima. Un prisma di entità solenne che ricorda come a quei tempi non ci fossero solo i Bergman e i Dreyer a rubare alla realtà immaginari politici e polisemici tali da intendere il presente già come se fosse un eterno ritorno alla fiamma del passato. Così Duminica la ora 6 di Pintilie oggi si può vedere (il film è circolato pochissimo, praticamente solo nei Festival) in una copia talmente perfetta da ricordare lo splendore di altri grandi restauri come Marketa Lazarova (Frantisek Vlacil, 1967) e La leggenda di Narayama (Keisuke Kinoshita, 1958). E’ sempre il cinema che lascia una traccia indelebile nella memoria e lo spettatore non può che trarre giovamento dalla riproposizione dei classici (per oltre 50 anni introvabili) in una qualità audio/video impensabile fino a qualche decennio fa.