Un cane che resuscita, malamente truccato perché le cataratte gli dessero un’aria cattiva; una mezza indemoniata che fa l’occhiolino prima di scatenare lo sguardo di Satana, o di Lucy – se preferite la citazione dal recente polpettone di Besson; un asettico laboratorio medico che diventa il set di un’idea vecchissima – ridare la vita ai morti – e finisce, difatti, per ambientare una sorta di dimensione parallela da incubo: The Lazarus Effect di David Gelb annacqua un po’ di fuffa pseudoscientifica con cucchiaiate d’horror d’annata – da Mary Shelley fino a Splice – ma difetta proprio nell’aria dannata che non ha, e che mai potrebbe avere con quella frettolosa narrazione taglia e cuci, con quelle tattiche spaventa-spettatore da piccoli brividi, con quei cenni etico-religiosi poco credibili in bocca a personaggi così pacchianamente sagomati. Ci prendiamo la tensione ed il po’ di pelle d’oca della seconda parte, per il resto: niente domande, niente lodi e – soprattutto – dimenticare in fretta.
Un problema di tensione – elettrica – e la dottoressa Zoe (Olivia Wilde) perde la vita. Col suo team, co-capeggiato dal fidanzato Frank (Mark Duplass), si era introdotta clandestinamente di notte nei laboratori dove s’era consumata l’impresa scientifica di resuscitare un cane, anche se lo studio del gruppo di ricercatori era partito con l’intento di migliorare l’attività cerebrale dei pazienti in coma. Un gigante farmaceutico aveva poi privato i valenti studiosi della paternità dello studio e della possibilità di portarlo a termine, da cui l’idea di ripetere l’esperimento di notte ed il luttuoso patatrac. Ipotesi su due piedi: e se stavolta si provasse a resuscitare proprio la dottoressa, fresca deceduta? Controindicazioni: col cane, c’era stato qualche effetto collaterale.
Tra gli effetti collaterali di The Lazarus Effect c’è probabilmente il sottoutilizzo di Olivia Wilde: occhi d’angelo con lampi luciferini, lascia intravedere interessanti potenzialità da scream queen, ma viene penalizzata da una sceneggiatura non esattamente da urlo. Di fatto, il modo in cui si (s)ragiona del siero che riattiva i circuiti neuronali richiede allo spettatore di disattivare i propri e di limitarsi a godere del grand guignol di effetti da horror economico. Non è irrilevante, allora, il fatto che il film lasci perplessi proprio nello scatenamento delle pulsazioni orrori fiche e nel timing dei colpi di scena: tendenzialmente comatoso e pigro nella prima parte, punta tutto sui venti minuti di shock finale. Questo, probabilmente, è il segmento in cui si perdonano tante delle sciocchezze precedenti e s’accetta il prodotto nella propria dimensione arruffatamente commerciale. Ad altri – chi scrive è tra questi – non basta questo massaggio cardiaco.