All’inizio sono le note vellutate di Ray Charles, sovrimpresse al più spigoloso sferragliare d’un treno. Poi è la notte, profonda come il profondo Sud degli Stati Uniti, in cui l’agente Sam Wood si gode la ronda con vista sul corpo di Delores, ragazzetta tutta forme che ama spogliarsi alla finestra. Poi, però, s’imbatte nel corpo del delitto: l’industriale Colbert è riverso, esanime, sull’asfalto, e con lui rischia di farsi il funerale pure la sclerotica economica locale, che fidava sugli investimenti in fabbrica del riccone. In poche ore vien fuori il capro espiatorio: è di colore ed aspetta il treno della notte per tornare al Nord. Errore di valutazione: non è il colpevole, ma il futuro deus ex machina, ispettore Tibbs (Sidney Poitier), in visita alla madre in città. Gli passano il caso tra mille remore e con la mentalità sudista che lo inquadra come diavolaccio da linciare. Gillespie (Rod Steiger), scontroso e poco formale ufficiale locale (Rod Steiger), gli darà una mano con malcelata diffidenza.
La calda notte dell’Ispettore Tibbs di Norman Jewison, regista di Jesus Christ Superstar, è un poliziesco solido, per quanto non adrenalinico, in grado d’intrecciare alla più classica trama whodunit, con ricerca del colpevole, l’ordito d’una caratterizzazione d’ambiente credibile e non priva di finezze psicologiche: il paesino del Mississippi dall’atmosfera stagnante, con le magagne pronte a venir fuori al calare delle tenebre ed il sonno della ragione che genera pregiudizi verso l’ispettore afroamericano. Che Poitier avesse mandato di fare il pesce fuor d’acqua si nota anche dal continuo trascorrere dal complesso di superiorità a quello d’inferiorità da parte dei provinciali, che lo guardano alternativamente come lo scomodo nigger o come il beneducato professionista in grado di sbrogliare una matassa troppo intricata per i praticoni dal cervello fino della stazione locale. Significativa e gustosa è la scena dell’obitorio, in cui il neo-arrivato Tibbs impartisce lezioni d’autopsia ammutolendo l’impresario delle pompe funebri ed il medico locale col più fiorito lessico da giallo scientifico.
Tra i cinque Oscar, fu senza dubbio meritata la statuetta di Rod Steiger, per quanto si sia talvolta rimarcato come la vittoria del bianco, con Poitier a secco, desse manforte alla fondata polemica razzista del film. In realtà, per quanto il duo funzioni alla grande – l’apice è una dimessa chiacchierata con le lingue sciolte dal bourbon a casa di Gillespie – è proprio Steiger a produrre il personaggio cult: gli occhialoni arancioni che lanciano il trend, il chewing-gum masticato con rumorosa villania, la sberla facilotta e quell’attesa a volte bambinesca che il superpoliziotto dalla pelle scura risolva la grana, con tanto di prevedibile delusione nelle fasi di stallo delle indagini (“Oh Dio… allora sei proprio come tutti noi, non è vero?”). Poitier\Tibbs, in fin dei conti, è un segugio affidabile, ma non fenomenale, la cui fisicità è appena accennata in qualche autodifesa, e subito celata dall’elegante completo grigio; la cui intelligenza lampeggia in sporadiche “sherlockate” (come quando intuisce che l’assassino non è mancino), e comunque surclassata dall’intuizione. Nell’incontro\scontro dei due carismi, allora, spicca quello più sanguigno e meno ingessato.
Per il resto, c’è la diligente costruzione d’una cornice attendibile, ad oggi piuttosto ordinaria d’aspetto, con l’esplosione dei serial di genere, ma all’epoca d’indubbio impatto, sia per il montaggio di Hal Ashby (sugli scudi in una scena d’inseguimento quasi capostipite), che per la fotografia di Haskell Wexler, tra esterni assolati, interni sudati e notturni desolati: un contraltare visivo degno dell’omonimo romanzo di John Ball.