Davanti a Un piccione seduto su un ramo rilette sull’esistenza di Roy Andersson le sensazioni di straniamento e perplessità sono forti. Quando si ha l’occasione di vedere un cinema altro, un tentativo di commedia filosofica, un’assemblaggio surreale di situazioni disparate del tutto fuori dalla norma, l’unico sentimento che prevale sugli altri è un impoverimento totale dello sguardo. La prova matematica che una certa critica ha preso una piega del tutto conforme agli stilemi del formalismo più integralista.
Il film di Roy Andersson pone seri dubbi sulla capacità del cinema di attrarre spettatori che non si riducano allo snobismo estetico quando decidono di andare al cinema. Il Leone d’Oro 2014 è una provocazione conseguenza diretta dei disastri del cinema festivaliero. Inutile cercare una trama perché non la si trova. Le immagini sono soffocanti, gelide, stilizzate, bellissimi quadretti fotografici con annessa una straripante colonna sonora piena di fantasie circensi. L’intento di Roy Andersson è proprio quello di decostruire la bella forma del visivo per accedere ad un ulteriore livello post-narrativo: la programmaticità dialettica del nodo interno alla soluzione del visivo.
Il visivo rimane inalterato ad ogni forma di comunicazione. Andersson in questa ultima commedia riflette ogni passaggio di contenuto in una forma spaziale che restituisca la bidimensionalità dei personaggi. Così facendo l’uniformità del quadro di riferimento chiede solo di essere ammirato in tutto il suo squallore esibito. Il fuori campo, come qualche illustre firma ha fatto notare, è fortissimo. Ma essendo il testo di base così poco rappresentativo, il fuori campo rimane un’ipotesi congelata nella consuetudine di una ripetizione forzata e snella di un fiume temporale che potrebbe avere molto più da dire, rispetto alle sagome pietrificate dei personaggi cui ci costringe Andersson.
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza parte da Songs from the second floor (2000) e You, the living (2007). Fare la differenza tra i tre film è un esercizio d’interpretazione grafica che lascio ai più esperti. Chi scrive ribatte un concetto molto intuitivo: non basta fare un film lento per fare un film noioso. I grandi film di Albert Serra sono là a dimostrarlo. Quella di Andersson è ha tutti gli effetti una requisitoria morale su un cinema che si adopera per mostrare un mondo alternativo al modello vigente. Il regista svedese è un antidoto contro le solite visioni. Ma a quale prezzo? Si può davvero prendere sul serio una rappresentazione così autistica della desolazione esistenziale della Svezia di oggi? Non siamo come nel cine-mondo del finlandese Aki Kaurismaki, regista autore di film molto simili tra loro. L’intento estetico di Roy Andersson è quello di muoversi sul piano inclinato dell’installazione video.
Non esiste un regista simile a Roy Andersson. Chi ha deciso di farsi affascinare dal suo cinema ha compiuto una straordinaria scelta di originalità, ma il senso dell’operazione ripetuto infinite volte, porta ad un equivoco ideologico molto forte. L’assenza di una contraddizione nel verbo della tempesta estetica. In Roy Andersson non c’è conflitto, non c’è guerra. Il regista svedese si adagia sul mistero dell’esistenza come il suo piccione, che guarda senza vedere nulla, accetta il mistero senza capirlo, si nasconde dietro la parvenza aulica di un profilmico di prima classe, utilizzando una forma narrativa senza centro di gravità, così da non prendere mai posizione e poter piacere ad una folta schiera di critici, che pretendono di vedere sempre meno per avere l’opportunità di vedere non “di più”, ma altre cose, limitrofe, che rimangono intrappolate all’interno di una codifica incandescente che non emoziona mai. E’ la gabbia dell’autorialismo. E’ stati inventata da illustri predecessori che Andersson conosce benissimo. Anche stavolta ha deciso di riprendere quegli stilemi per farci capire che ha imparato la lezione a dovere. Ma a quale prezzo?