Il dramedy, termine nato dalla fusione tra drama e comedy, è un genere dove l’imprevisto conta esattamente come il nervo principale su cui si sostiene l’intera impalcatura della narrazione. Jonathan Demme negli anni ’80, prima con Qualcosa di travolgente (Something Wild) (1986) e in seguito con Una vedova allegra…ma non troppo (Married to the Mob) (1988) riuscì a ottenere una insperata relazione pop tra drama e comedy. Married to the Mob risulta un’opera ancora più libera e giocosa rispetto al primo film. Anche perché dopo una cosa come Qualcosa di travolgente (Something Wild) era praticamente impossibile migliorare la forma narrativa del “noir in surplus” raggiunta nel film con Jeff Daniels e Melanie Griffith.
Married to the Mob è un’opera unica nella filmografia di Michelle Pfiffer. L’attrice viene diretta da un grande regista in una commedia mafiosa dove l’assunto finale contraddice tutte le premesse della fase iniziale. Demme calibra il sentimento del tempo, il fatto che ognuno può decidere del proprio futuro perché non esiste nessun fato preordinato tale da ridurre le aspirazioni di ognuno a brandelli di disperazione, in modo tale da lasciare che il tempo filmico lasci nello spettatore la sensazione che il tessuto connettivo del cinema sia concomitante con quello della visione. Demme fa sentire lo spettatore dentro un tempo stralunato e vago, la sua commedia è sì un noir pieno di colpi di scena, ma funziona come Radio Days (1987) di Woody Allen: è uno studio su un tempo.
In tempo in cui la tecnologia Blu Ray offre la possibilità di riadattare oggetti esteticamente astratti e ellittici come questo di Demme, la differenza tra un film di 27 anni fa e uno di oggi quasi non si vede. Le differenze sono evidenti nella struttura narrativa: provate a confrontare Married to the Mob e American Hustle L’apparenza inganna (2013). Russell tenta di rifare quello che Demme faceva 27 anni, ma non sa come impaginarlo, lo butta lì sulla scena senza riflettere sul come accendere i personaggi e la narrazione. Demme usa il cinema come una giostra wilderiana, con una partitura contrappunta più dal montaggio sincopato e dai dialoghi pungenti che non dalla regia in sé.
Il cast usato da Russell è all-star, il profilmico (fotografia-scenografia-costumi) lo rende a prova di qualsiasi critica. Ma una cosa è fare l’illustrazione piatta di piani sequenza, una cosa è far uscire l’anima punk dai personaggi. Demme fa questa cosa: fa parlare una certa anarchia estetica che rende Married to the Mob un’opera che se all’epoca era stata presa come una delle tante commedie americane senza tanta originalità, oggi, ai tempi del restauro e del Blu Ray, ritrova una nuova vita, sbalzata in un tempo altro e alieno. E la sensazione di spaesamento è di seduzione tellurica gradevolissima.