Murakawa è uno Yakuza ormai stufo del suo ruolo di killer e pensa al ritiro. Ma non ha fatto i conti con il suo clan, il cui Boss, non vede l'ora fargli la pelle. La resa dei conti lascerà su Murakawa profonde cicatrici.
Diretto da: Takeshi Kitano
Genere: poliziesco
Durata: 94'
Con: Takeshi Kitano, Tetsu Watanabe
Paese: GIAP
Anno: 1993
Takeshi Kitano è sempre stato un outsider, dai tempi di Violent Cop (1989) sua prima regia, del tutto improvvisata, fino a quando raggiunse la fama internazionale grazie a Hana-bi Fiori di fuoco (1997), consacrato dal Leone d’Oro a Venezia, con le lodi di una Jane Campion estatica di fronte a un guizzo autoriale che probabilmente non si aspettava.
Se lo aspettavano eccome invece i pochi che riuscirono a vedere a Cannes nel 1993 Sonatine, dramma yakuza diviso in tre atti, che servì a mettere lo stile fiammeggiante di “Beat” Takeshi tra le parentesi di un poliziesco sempre elegante e modesto, surreale e pittorico, come raramente è capitato di vedere negli ultimi 20 anni, da John Woo ai grandi autori di Hollywood.
In Sonatine la presunta guerra tra due famigerati clan Yakuza si trasforma in una resa di conti all’interno di quello capitanato dal leader Takashima, alla cui autorità Murakawa (Kitano) non intende sottomettersi.
Di conseguenza, i tre atti sono concepiti da un parte iniziale in cui viene introdotta la disputa e in cui viene dichiarata guerra; una seconda parte in cui la banda di Murakawa si ritira in una spiaggia dove gli spietati gangster passato il loro tempo con arlecchinate e giochi di ruolo, lotte di Sumo e giochi con i frisbee, che servono se non altro a cementificare l’amicizia all’interno del clan; una terza parte dove i ruoli all’interno della disputa si chiariscono e avviene la resa dei conti.
Raccontato così non restituisce il senso dell’operazione, perché la regia di Kitano è quanto di più lontana dal poliziesco classico si possa vedere. Kitano all’interno della seconda parte si produce in uno sfoggio di autentica poesia visiva: inquadra per tre volte la luna in cielo, posiziona la mdp ad altezza d’uomo riprendendo i silenzi, il mare, concedendosi la libertà di un piano sequenza fisso, dove in linea orizzontale viene ripresa di notte una battaglia tra fuochi d’artificio, si diletta ascoltando il rumore del vento, ogni volta che viene presentata la possibilità di uno scoppio di violenza, che abbonda nella prima e nella terza parte, essa viene, almeno nella parte centrale, simulata, derisa, uquivocata, liberata dal senso del terrore e dall’angoscia della morte.
Il contesto Yakuza per Kitano è il gioco del pallottoliere, il caso domina su tutto, il regista nipponico, nato come attore comico, riprende la vena surreale, grottesca, degli inizi di carriera avviando il genere in uno spazio contiguo alla metamorfosi di uno stile che non sembra mai appagato del bel gesto estetico mostrato, rimanendo sempre attento al dubbio, componendo un camuffamento del proprio timbro autoriale innestando una compartecipazione di eventi sibillini, sempre inquadratati con un senso immobile dell’azione, dove la realtà diventa un arazzo surrealista.
Tutta la violenza che scorre in Sonatine è il rimasuglio di ciò che si è visto in altri film più famosi sugli Yakuza, questo di Kitano rimane nella memoria per la sua caratteristica spiazzante e frivola, sempre sull’orlo di una rivelazione che arrivi ad improvvisare un discorso sulla disputa tra contenuto e forma, dove la forma si mangia il contenuto, e quello si esprime al di fuori del quadro di rappresentazione, è sempre l’indiscernibile vuoto della sostanza lisergica del cinema stesso.