Babadook è l’oscuro, inquietante gentiluomo con cilindro che bussa (“Ba ba dook-dook-dook”) alle porte dell’inconscio. É l’ancestrale incarnazione del senso del rimosso (e del rimorso) di persone sconfitte anzitempo, allontanate dalla vita da qualcosa di troppo doloroso per essere affrontato.
Il film che l’attrice australiana Jennifer Kent, al suo esordio dietro la macchina da presa, assembla in un piccolo compendio domestico di paure, sentimenti e dinamiche affettive tutt’altro che superficiali, trasuda di suggestioni e rimandi al più svariato cinema dell’orrore e del perturbante, pur senza ridursi a una sua ennesima, banale imitazione. Dalla storia di possessione che si lega indissolubilmente a un distorto e corrotto amore filiale di kubrickiana memoria, alla casa infestata da entità tanto invisibili quanto onnipresenti, tutto pare asservire un immaginario consolidato, potentissimo e suadente contribuendo però, nello stesso tempo, ad allargarlo, a declinarlo in una nuova, spiazzante storia d’amore, odio e terrore. É proprio dalla casa, quella casa vecchia e triste, di una tristezza grande come il lutto, forte come la disperazione, lunga come la (breve) vita di un bambino incolpevole, che pare emergere, in tutto il suo quotidiano orrore, il regno di un mostro tanto strisciante e invisibile quanto pervasivo e incancellabile, immortale.
Babadook è la macchia indelebile in coscienze segnate dalla perdita (una donna che ha perso suo marito) e dalla mancanza (un bambino che non ha mai conosciuto il padre), un mostro che ha la (in)consistenza fantastica e a un tempo reale del cinema stesso, un’ombra in stop motion, un fantasma alla Méliès da 16 fotogrammi al secondo, un incubo a occhi aperti tremendo e ossessivo. Scansando facili e prevedibili shock visivi e sonori, trovate espressive forti e sobbalzanti dalla fin troppo facile presa emotiva, la Kent punta tutto sul suo personale tocco femminile, su una scrittura e una caratterizzazione dei personaggi profonda e mai scontata, sul mistero nascosto dietro le pieghe angosciate (e angoscianti) dei volti dei suoi protagonisti (la versatilità di Essie Davis, nel suo duplice ruolo di madre-strega; il terrore irrequieto e urlato del piccolo Wieseman), sulla costruzione di un’atmosfera evocativa mano a mano sempre più carica di disagio e disperazione, tesa, tra silenzi spasmodici, all’ascolto di richiami agghiaccianti e pervasivi.
Dramma famigliare e moraleggiante sulla difficoltà di amare, favola nera di un bambino e una madre soli, in lotta con il mondo e con le loro stesse paure, piccolo, intimo esempio, tra i fratelli Grimm e l’uomo nero, Burton e L’Esorcista, di un horror come pochi, semplice, misurato, terrificante, The Babadook è l’esaltante trionfo di quella paura che non sparisce istantanea come è arrivata ma che rimane lì, nell’ombra, nel buio di un armadio, sotto il letto, nel minaccioso fuori campo della parte più oscura della nostra coscienza. Una paura pronta a uscire dallo schermo, lenta ma inesorabile, per rincorrerci e catturarci. Anche dopo la visione.