La saga de Lo Hobbit termina con un’azione circolare. Bilbo Baggins ritorna alla Contea. Peter Jackson si inventa una chiosa comica buonista che lascia quel tanto di amaro in bocca per quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Lo Hobbit La battaglia delle cinque armate non è affatto un brutto film o un’opera fallimentare, bensì punta a focalizzare l’attenzione su quell’aspetto tipico del cinema americano di oggi, che condanna di fatto la maggior parte delle produzioni “big budget” ad assomigliarsi un po’ tutte. Lo si potrebbe definire “cinema autistico”.
Peter Jackson era entrato nel progetto de Lo Hobbit dalla porta posteriore, dopo il rifiuto di Guillermo del Toro di dirigere la trilogia prequel de Il Signore degli Anelli, che aveva fatto vincere a Jackson l’Oscar alla regia e aveva riempito le sale di tutto il mondo. Il regista neozelandese ha quindi ripreso in mano quella che sentiva come una sua creatura e ha tentato di riportarla ai fasti di dieci anni fa. Ma i problemi emergono già in fase di casting: Martin Freeman da solo deve sostituire Ian Holm e Elijah Wood, Richard Armitage al posto di Viggo Mortensen; solo Ian McKellen, Cate Blanchett, Christopher Lee e Orlando Bloom rimangono. Il cast doveva essere fatto meglio. Perché con il cast dei Nani, l’unico vero tono che rimane intatto nella nuova saga è l’ironia. Per il resto, il mystery, la radice dell’avventura, il romanticismo (non c’è nemmeno Liv Tyler), l’horror, sono tutte componenti che vengono meno.
Jackson ha dalla sua solo un’innata capacità di trasformare l’action fantasy in una baraonda colma di meraviglie. Il regista neozelandese sa quali corde premere per far innamorare il pubblico. Sa anche che la sua nuova saga ha il fiato corto e che deve necessariamente arrampicarsi sugli specchi perché il motore dell’azione funzioni. La sua macchina comunque funziona a meraviglia, il divertimento è assicurato, ogni elemento è autisticamente al suo post, la giostra di Hollywood finanzia i giocattoli di un tessitore di favole che sa il fatto suo.
Nel terzo capitolo della saga si inizia dove era terminato il secondo capitolo, con il drago Smaug che sfreccia verso il villaggio. Bard riesce ad eliminare la mostruosa creatura in una spettacolare scena. Jackson impiega un’ora e mezza di dialettica fantasy molto discutibile per arrivare la dunque della battaglia: nella guerra tra Elfi e nani si imbatte l’armata degli orchi, e Thorin, capo dei nani, dovrà decidersi a staccarsi dal suo tesoro per accorrere gli alleati nell’infuriare della battaglia. Alla fine la tonnellata di coreografie imposte dalla regia di Jackson sono talmente variegate e stilizzate che non ci si deve nemmeno sforzare a cercarvi un senso: i capitali sono stati ben spesi, la vittoria sugli Orchi è raggiunta a scapito di due ore mezza di proiezione, che potevano benissimo essere 100 minuti. Il fantasy è diventata l’ombra di una scenografia densa di dettagli, che si lega ad un immaginario senza più fissa dimora, capace solo di ampliarsi per il piacere di chi è ancora capace di meravigliarsi.