Hana-bi – Fiori di fuoco (1997) è la settima pellicola diretta dal regista giapponese Takeshi Kitano. Già autore di rilievo grazie ad opere come Il silenzio sul mare (1991) e Sonatine (1993), con Hana-bi, Kitano si aggiudicò il leone d’oro alla 54°edizione del festival di Venezia.
Proseguendo nella sua poetica di stilizzazione della violenza, Kitano realizza un’opera che vive di contrasti talmente semplici da avere una forza narrativo/visiva straordinaria.
La delicatezza del rapporto tra Nishi (interpretato dallo stesso Kitano) e la moglie si contrappone a una violenza improvvisa ed inevitabile che è la sostanza stessa della società.
Un equilibrio precario quello delle opere di Kitano, sempre in bilico tra tragedia e bellezza. Elementi che in Hana-bi vengono estremizzati, raggiungendo vette drammatiche che rendono il film molto più di un semplice poliziesco.
Nishi, ex poliziotto distrutto dal senso di colpa per la morte di un collega e della paralisi di un amico, tenta di evitare il dolore della moglie malata terminale che ha appena perso il bambino, trascorrendo con lei una vacanza pagata con i soldi che si è procurato con una geniale, rocambolesca rapina.
Kitano riesce per l’ennesima volta a conferire spessore a un essere umano romantico, che non ha bisogno di parole per trasmettere un amore sconfinato per la consorte, un desiderio di effimera felicità che viene interrotto dalle regole di un mondo spietato, dove per sopravvivere bisogna essere ancora più spietati.
Alternando suggestive immagini di tableaux vivants pittorici alla brutalità del sangue che scorre inesorabile, Hana-bi è una straordinaria opera sulla geometria degli spazi e dei tempi del cinema. Il Kitano regista dimostra di saper raggiungere una catarsi drammaturgica con la semplice dilatazione narrativa, con il completo controllo dell’inquadratura filmica come un moderno Ozu.
Kitano realizza un’opera sul vedere e sulla molteplicità dello sguardo, l’occhio della macchina da presa, e con lei quello del sapiente montaggio, ci rende spettatori onniscienti, ci offre molteplici punti di vista da cui guardare guardare: interni, esterni, campi-controcampi, dettagli d’immagine e frammentarietà narrativa vengono usati da Kitano per mostrare solo gli elementi essenziali al gioco poetico, lasciando al fuori campo tutto il senso di morte e di frammentarietà di un visivo, che mai come in questo caso diventa effige plurima di significati.
Takeshi Kitano sceglie nell’ultima scena di lasciare tutto il significante al fuori campo, allontanandosi completamente dal campo visivo dell’azione, affidandosi al solo elemento sonoro, ad una colonna sonora struggente, in uno dei suoi finali più belli e tragici, dove lo spettatore rimane senza più alibi davanti ad una fine già ampiamente annunciata.