“Tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere”. Su questa dialettica Leigh racconta di aver costruito il suo Turner, presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes, sugli ultimi venticinque anni di vita dell’artista definito “il maestro della luce”, dalla personalità eccentrica, stravagante e tanto schiva da rinchiudersi nella propria solitudine alla morte del padre, suo grande estimatore ed assistente.
Acclamato a Cannes e presentato al London Film Festival, Mike Leigh, grazie all’interpretazione di Timothy Spall, mette in scena un biopic sul grande pittore inglese tra le cui righe è rintracciabile non solo una riflessione sull’arte stessa e le diverse declinazioni possibili ma ancor più, sul divario – incolmabile – tra pittura e fotografia. Ed è in quell’impercettibile distanza che il senso del film si snoda, continuamente a metà tra la rozza volgarità esibita nell’interpretazione fisicamente prorompente del suo interprete, Timothy Spall, ed il sogno di raggiungere la luce impressa su ciò su cui si posa rivelandone l’insondabile anima che appartiene alla natura stessa che Turner infonde alle sue tele.
Così riflettendo sulla distanza tra fotografia e pittura, tra realismo ed impressionismo, il film racconta di un dialogo ideale tra due linguaggi del Turner pittore e del Leigh regista. Non è l’opera in sé, il quadro, a costituire l’elemento della narrazione ma ciò che lo precede, la rivelazione di un’epifania di luce, agognata e raggiunta dopo un lungo peregrinare tra quei paesaggi britannici tanto aspri e selvaggi, che tornano come tema ricorrente nel film, tra un episodio e l’altro a definire tratti salienti del personaggio. L’immagine pittorica sembra rimanere sospesa nel fluire di quella in movimento, così è la pittura nel cinema, il quadro nel frame ad apparire come un invito alla contemplazione e, rispetto all’immagine filmica, continuamente la doppia, la riflette e si lascia contemplare.
Tra un episodio e l’altro appare sui generis questo biopic perché la quotidianità o la banalità di alcuni passaggi sembrano servire al solo scopo di lasciar sedimentare qualcosa di altro, un discorso forse rivolto allo spettatore stesso, chiamato a testimoniare come la pittura, la fotografia e il cinema, tutto il cinema e non solo di Leigh, infine condividano le stesse esigenze di imprimere nel quadro, ciascuno nel proprio, porzioni di luce, spazi di rappresentazione che contengano in sé l’intima necessità di dare vita alla realtà. Un film che tra paesaggi e ritratti, anch’essi paesaggi d’altronde, racconta di vulnerabilità e di un’infinita grazia resa da quei continui giochi di luce, evanescenze impresse sulla tela del cinema.