Dove vada il cinema è impossibile saperlo. La settimana arte ha abituato lo spettatore, nei decenni, a grandi stravolgimenti, dall’invenzione del sonoro, del colore, del cinemascope, dall’avvento della tv fino alle vhs, ai dvd e ai Multiplex. Il 3D è arrivato proponendosi come ultimo modello applicato alla grande industria dell’intrattenimento. All’inizio lo scetticismo era prevalente, in pochi sapevano usarlo, tra cui James Cameron per Avatar (2009) e Henry Selick in Coraline E la porta magica (2009). La maggioranza di chi ha usato il 3D a Hollywood all’inizio della grande diffusione, nell’era della digitalizzazione globale, lo ha fatto applicando la tecnologia in post-produzione. Dei registi europei solo Wim Wenders ne ha proposto un uso organico con Pina (2011).
Con l’ingresso di un nome come quello di Jean-Luc Godard nella ristretta lista dei registi che hanno utilizzato il 3D, l’effetto è spiazzante quando non fastidioso, per non dire manierista, formalista e del tutto inutile. Adieu Au Langage Addio al linguaggio di Godard assembla un mix di immagini completamente disarticolate tra di loro, dove un centro narrativo non c’è e dove l’accostamento libero di più immagini frammentate e frastagliate reca disturbo, ansia di visione, pone dubbi del tutto pretestuosi: cosa si deve vedere, perché si deve vedere, come si deve vedere, come vanno interpretate le immagini, come vanno interpretate quelle immagini che riflettono sulla Storia. In tutto questo contesto la visione delle immagini tridimensionali fa trasalire lo spettatore bombardandolo, come nei più volgari pastiche videoclippari, a 360°, con una cacofonia visiva dove non si riesce mai ad intuire la necessità di un punto di vista.
Godard si eleva a maestro digitale per le nuove generazioni, non possedendo basi per poter fare un uso consapevole dell’immagine tridimensionale, finendo per usare il 3D con la stessa volgarità spiccia con la quale ha sempre girato in pellicola i suoi poemi visivi. Alcuni sprazzi di incommensurabile genio visivo ci sono, volti, sguardi, frammenti di un poema diviso in mille pezzi, dove non si raggiungerà mai un centro di visione degno di questo nome. Godard confonde i vari piani visivi, li sovrappone, gioca con un device che rischia di diventare del tutto inutile se non si ha una forte conoscenza del mezzo e se non la si applica ad un’estetica forte, con delicatezza estrema.
Godard possiede invece la delicatezza di un elefante, toccando i nervi scoperti dello spettatore, infliggendogli una visione ai limiti del sopportabile, dove l’etica della visione si riduce al tardo post-comunismo d’accatto e l’immagine elettrica dei fiori rimanda ad un’estetica della visione di cui non si riesce a comprendere il reale significato. Il film nella testa di Godard ci sarebbe anche, ma è mancata la sobrietà stilistica per metterlo in scena. Chi si è innamorato dei fiori elettrici forse avrà creduto di assistere ad una visone in surplus, un allucinato momento d’estasi prima dell’inizio di un bufera senza fine. E’ il tormento di chi vede qualcosa di straordinario, senza poter avere una giustificazione verso un’emozione che rasenta il disgusto.