White Bird in a Blizzard, ultimo lavoro di Gregg Araki al momento di scrivere reperibile solo attraverso la rete, è un eccellente esempio di quanto il casting possa essere elemento centrale della realizzazione di un film, fino addirittura a farsene parziale vettore di senso.
Sotto le spoglie di un emozionante thriller che è anche conturbante racconto di formazione, White Bird in a Blizzard si lascia infatti leggere come un lavoro in cui Araki fa i conti con molte cose, a cominciare dal suo cinema passato. Il cast, si diceva. Prendiamo Christopher Meloni. Nel film ha la parte del padre della protagonista, la diciassettenne Kat, ed è un uomo di difficile interpretazione, tanto che si presume che possa avere ingannato la macchina della verità, ma al grande pubblico l’attore è noto soprattutto per la serie televisiva Law & Order – Unità Speciale e per il ruolo di Chris Keller, pericoloso sociopatico bisessuale autore di numerosi omicidi nel serial Oz dalla seconda alla sesta stagione. Un rimando abbastanza evidente, a maggior ragione se si ricorda che l’attore fu protagonista di un divertito sketch a sfondo omosessuale alla premiazione dei GLAAD Media Awards del 2000. Un modo per creare ambiguità e seconde letture della storia, giocando con le conoscenze pregresse dello spettatore avveduto, senza bisogno di scontentare quello occasionale o non “esperto”.
Un colpo da maestro Araki lo mette poi a segno facendo interpretare la madre di Kat alla provocante Eva Green. Non solo perché il ruolo di una madre 42enne è consegnato a un’attrice che ha in realtà quasi due lustri di meno (rendendo più credibile la presunta seduzione del fidanzato della figlia), ma perché la Green, femme fatale in molti dei film girati per il grande schermo, viene utilizzata secondo lo stereotipo imbastito su di lei a Hollywood, per poi negarlo nel finale a sorpresa che costringe a riconsiderare il plot rompendo la prospettiva di genere (nel senso di gender).Non è poco, se si valuta l’incoerenza tutta adolescenziale del suo personaggio, che si chiama Eve (un caso?). Ma il radicale capovolgimento della tendenza del cinema di Araki a crogiolarsi nei corpi degli attori e nell’evanescenza (e insieme la riaffermazione di un’autorialità spiccata) si ha nel personaggio centrale di Kat, affidato alla lanciatissima Shailene Woodley, che dopo Colpa delle Stelle e l’insipido Divergent, si può di buon grado considerare un’icona del genere Young Adult.
Il disagio del coming of age, tema cardine del cinema del regista di Mysterious Skin, è declinato rigettando ogni ottimismo nella rappresentazione degli adolescenti come uomini in nuce perseguito ingenuamente dal filone YA: la notevole sequenza della seduzione di Thomas Jane ha un tono ambiguo e quasi sarcastico che fa piazza pulita dell’effigie patinata dell’attrice e trova riscontro in tutto il film, nel quale l’immaturità psicologica di Kat è mostrata con ogni evidenza. Non c’è da sperare troppo in una distribuzione italiana del film, dati gli appena 325mila dollari rastrellati al box office internazionale (ma il cast fa sperare). Però se c’è un Araki che convince “come autore” negli ultimi dieci anni, e meriterebbe una visione non frettolosa, è certamente questo.